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Voto
Spingendosi, come d’uso, ai limiti del visibile (ma soprattutto dell’udibile), il regista polacco Lech Majewski trasferisce le sue atmosfere oniriche dalle fantasie dantesche di Adam (Field of Dogs, 2014) allo Utah imprevedibilmente tempestoso del personaggio di John Ecas (Josh Hartnett), uno scrittore inurbato pronto ad offrirsi in pasto ai propri demoni.
Valley of the Gods riunisce i due principi cardine della settima arte: scrittura e immagine, idea e sogno, realtà e ipotesi. Al bizzarro rigore strutturale, che prevede un prologo seguito da dieci capitoli (e forse da un epilogo), il lungometraggio contrappone una schizofrenia creativa e creatrice da cui si generano migliaia di mostri: il principio è quello della Wunderkammer, l’impressione è quella di penetrare, magari dissacrandolo o quantomeno ampliandone i confini cinematografici, il classico Gabinetto delle figure di cera – a suggerircelo è l’intercapedine episodica su cui l’intero film si sostiene.
Sotto l’occhio attento dell’obiettivo, organo onnisciente più di quanto non vorrebbe, si susseguono diversi quadri: la narrazione inizia con John che, disperso nel bel mezzo di una desolazione geograficamente e umanamente ingombrante, traduce in parola qualcosa a cui ancora dobbiamo assistere. La trama si svolge come un filo d’Arianna destinato a perdersi da entrambi i capi, la suddivisione in paragrafi e sottoparagrafi serve solo a svelarci la natura fiabesca (per quanto verosimile) di ciò che stiamo osservando. L’istantanea del poeta, reclino sulla scrivania e sperduto in un deserto rosso che pare quasi incarnare il centro del mondo, ci astrae dalla storia con una certa ridondanza motivica, spingendoci nelle profondità infernali di un vero e proprio labirinto allucinatorio. La sfida è appunto quella di riuscire a discernere, in questa giungla di simboli e citazioni, l’elemento concreto, il soggetto attorno al quale lettera e visione si animano (o, viceversa, vengono animate).
In tal senso, John non sembra essere l’unico personaggio a possedere un’inquietante autonomia esistenziale: egli si troverà costretto a condividere il palcoscenico con Wes Tauros (un enigmatico John Malkovich), l’uomo più ricco del mondo, sorta di spettro dalle tendenze saturnine nel quale si riuniscono volti spesso e volentieri contrapposti. Deciso a trasformare la selvaggia Monument Valley in un serbatoio d’uranio, Wes incarna il prototipo di tutti gli orrori del nostro tempo: ricchezza, povertà, seduzione, sfruttamento, solitudine e follia. Majewski, tuttavia, non si lascia liquidare così facilmente e aggiunge al profilo lineamenti inaspettati, incitando il nostro miliardario a comportarsi in maniera sfuggente e imprevedibile. È come se Charles Foster Kane si fosse insinuato a tradimento nell’universo di Leos Carax e avesse deciso di tingere i propri tratti camaleontici con sfumature più grottesche. Se poi al dipinto aggiungiamo la presenza del maggiordomo Ulim (Keir Dullea), la costellazione si spinge fino agli antipodi dello spazio, riportando tristemente il celebre Dottor Bowman (l’Ulisse di Stanley Kubrick) al di qua delle Colonne d’Ercole.
Ma la penna di John non si ferma nemmeno un istante e ci scaglia dalla parte opposta dell’incubo – più precisamente, nel desolato Navajo Tribal Park: qui ciò che rimane delle ultime tribù native si arrabatta fra le rovine della sua civiltà, amalgamando empietà e misticismo in una miscela tossica, contaminata, maledetta. Niente paura: il prevedibile binomio “Indiani contro Cowboy” (che è poi come dire “Natura contro Cultura”) è superato in partenza, così come lo sono i suoi scontatissimi capovolgimenti. Interessante è però lo zoo sotterraneo in cui Tauros rinchiude le sue creature – un Panopticon in cui la società occidentale viene imprigionata e umiliata nello stesso modo in cui quella Navajo oggi si riduce ad un insieme di chincaglierie per turisti. Il tutto nel nome di un progresso impegnato a mummificarsi nei suoi scranni.
E qui potremmo fermarci, se ci accontentassimo della banalità: Eppure, come già riportato, Majewski gioca con noi come fa Wes con i suoi ospiti-statua, provvedendo a dotare ogni immagine di una verità sua – una verità che prescinde da qualsiasi logica drammatica o politica. Il regno creato dalla cinepresa si basta nelle proprie contraddizioni (e, sarebbe opportuno aggiungere, citazioni), esso soddisfa le nostre aspettative per un gusto personale a noi ignoto.
La scena finale, in cui la terra (qui sotto le sembianze di un gigantesco bambino di pietra) si riprende ciò che le appartiene, non ha nulla a che fare con la trama, ma commenta ironicamente le gesta dello scrittore – e, insieme ad esse, anche le prodezze di noi bravi spettatori che abbiamo fatto i compiti a casa. Soltanto quando il libro si chiude e l’inganno si sgretola, è concesso riprendere fiato.
In sala dal 3 giugno
Cast & Credits
Valley of the Gods – Regia: Lech Majewski; sceneggiatura: Lech Majewski; fotografia: Lech Majewski, Pawel Tybora; montaggio: Eliot Ems, Norbert Rudzik; interpreti: Josh Hartnett (John Ecas), Bérénice Marlohe (Karen Kitson), John Malkovich (Wes Tauros), John Rhys-Davies (Dr. Hermann), Jaime Ray Newman (Laura Ecas), Keir Dullea (Ulim); produzione: Lech Majewski, Filip Jan Rymsza; origine: Polonia, Lussemburgo 2019; durata: 131’; distribuzione: CG Entertainment in collaborazione con Lo Scrittoio.
