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Scritto dal giornalista e autore americano Gabriel Sherman e diretto dal regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi, The Apprentice propone una ricostruzione, pur romanzata ma credibile, della scalata al successo di Donald Trump. Come sottolinea il regista durante la conferenza stampa di presentazione del film a Cannes, il suo film vuole mostrare, da un punto di vista ‘neutrale’ da quale sistema politico corrotto e grazie a quali relazioni di amicizia, fra gli anni Settanta e Ottanta, il Trump come lo conosciamo noi oggi, sia riuscito a raggiungere ricchezza e potere.
Il film è costruito in due parti, e poiché la narrazione segue uno schema cronologico molto lineare, la prima, ossia la scalata al successo, si può pressappoco circoscrivere agli anni Settanta, la seconda, l’espansione dell’impero trumpiano, agli anni Ottanta.
Nella prima parte un Donald Trump (Sebastian Stan) ancora nel fiore degli anni, ma decisamente inesperto, fisico atletico e una leggera somiglianza all’attore hollywoodiano Robert Redford, entra in contatto con lo spregiudicato avvocato Roy Cohn (Jeremy Strong) grazie al quale riesce a vincere una causa – data per persa in partenza – contro lo Stato di New York, ed ottiene così una riduzione delle tasse per la sua azienda immobiliare a spese della popolazione newyorkese. Ma, se le trame politiche ed i processi giudiziari del magnate e 45° presidente degli Stati Uniti sono bene o male fatti noti, sono probabilmente meno di dominio pubblico i suoi stretti rapporti di amicizia e collaborazione con Roy Cohn, il suo mentore. E nemmeno la storia d’amore fra Trump e la prima moglie, la modella ceca Ivana Zelníčková (Maria Bakalova) conclusasi davanti ai banchi del tribunale, sarà nota a molti. Allo stesso modo, in questo periodo iniziale dell’ascesa di Trump, non poteva mancare la figura dominante e autoritaria del padre, e all’opposto, quella più debole e tragica del fratello.

Sempre grazie all’amicizia e ai consigli di Cohn, Trump inizia a frequentare i party più in voga ai quali partecipa la ricca e potente mondanità newyorkese. Fra questa, ritroviamo ben riconoscibili Rupert Murdoch e Andy Warhol (che Trump, invece, sembra non saper riconoscere). La nuova rete di relazioni e contatti prestigiosi gli permette di costruire i suoi grandi progetti immobiliari: la Trump Tower, alta ben 68 piani e la visionaria Atlantic City, su cui nessuno al tempo faceva grande affidamento, visto il completo degrado in cui tutta la zona si trovava. Il titolo del film, letteralmente “L’apprendista” gioca sul nome di un programma di reality televisivo coprodotto da Trump, al quale lui stesso aveva partecipato. Inoltre, si riferisce al rapporto paternalistico e di guru che Cohn si assume nei confronti del giovane imprenditore immobiliare, tanto da insegnarli – così almeno nella fabulazione del film – le sue tre regole fondamentali: attacco-attacco-attacco; mai ammettere, ma rinnegare sempre; qualsiasi cosa succeda, annunciare la vittoria e mai la sconfitta. A questi insegnamenti base, Trump aggiunge il concetto ereditato dal padre, che nella vita bisogna agire da killer, per non venire a sua volta mangiati da altri.
E qui arriviamo alla seconda parte del film, quando, imparata l’arte e raggiunto il successo, alla notizia della malattia per Hiv del compagno di Cohn (quest’ultimo non nascondeva la sua omosessualità) lo pianta in asso e, ormai dall’alto di una solida posizione da ‘killer’ nega, con placida indifferenza, aiuto e amicizia al pure malato e quindi ormai inservibile avvocato. Nello stesso misero modo si separa dalla moglie. Nel lungometraggio una cruenta scena di violenza sessuale, basata su una reale accusa di Ivana al marito durante il processo di divorzio, ha già scatenato l’ira di Trump, che ha giudicato il film nientemeno che “pura immondizia”. Eppure, per quanto alcune scene possano risultare controverse e servano soprattutto a creare il personaggio filmico – l’uso di anfetamine, la liposuzione, il trapianto di capelli e ancora il già citato stupro – il film si basa su fatti reali e accertati, non per niente Abbasi si è valso della competenza dello scrittore e giornalista Gabriel Sherman, noto per aver seguito da vicino la prima campagna elettorale di Trump.
L’interpretazione di Trump che Sebastian Stan ci consegna, è a dir poco impressionante. Qualche mese fa, alla Berlinale avevamo potuto ammirarne la bravura in un altro impeccabile ruolo, dove impersonava un attore alle prese con problemi di identità in A Different Man, un ruolo per cui ha ricevuto l’Orso d’argento per la migliore interpretazione. Ma nemmeno la versione di Cohn data da Jeremy Strong è meno straordinaria. Senza la loro ineccepibile abilità mimica il film non sarebbe riuscito a convincere e ad appassionare come invece fa.

La riflessione di fondo è forse un’altra, ed è, se veramente ci fosse bisogno di un film sul tycoon americano in un momento particolarmente teso come quello che stanno vivendo gli Stati Uniti ora, dopo un attentato (fortunatamente) fallito, e un paese spaccato in due da una campagna elettorale particolarmente cruenta. Ci si chiede perché Abbasi, regista conosciuto per tutt’altro genere di narrazione (Border – Creature di confine, 2018; Holy Spider, 2022) abbia accettato di portare sugli schermi questo quasi perfetto ritratto, per certi versi affascinante, sulla controversa figura di Donald Trump. Dopotutto nemmeno il recente processo per falso in bilancio e frode ha poi cambiato di molto il proseguire della campagna elettorale del candidato repubblicano, se non è addirittura servito a giovargli. Il rischio è sempre quello di perpetuare un mito, di riproporre l’immagine di un eroe (per quanto negativo, comunque di eroe si tratta!) di quel self made man da cui gli americani sono psicologicamente dipendenti. E quindi, (stessa storia per Silvio Berlusconi), porre le qualità – certamente da non sottovalutare – ma anche il piacere per il rischio, la sfacciataggine e l’ipocrisia senza rimorsi di chi non bada ai mezzi per fare carriera, soldi e raggiungere i propri scopi, al centro di un film di finzione, che ha appunto lo scopo di intrattenere, rimane sempre un’operazione pericolosa.
In ogni caso Ali Abbasi, sfruttando un ritmo serrato, un’ottima sceneggiatura, attori straordinari, un ricco set design – che riproduce l’estetica e i colori sgranati delle pellicole del tempo – e per finire una colonna sonora che restituisce l’atmosfera dell’epoca, realizza un ritratto avvincente dell’America corrotta e per niente moralista che ha creato il ‘mostro’ trumpista di oggi. Sicuramente è un film che merita di essere guardato e (assolutamente!) discusso in questo preoccupante momento storico.
In sala dal 17 ottobre 2024
The Apprentice – Alle origini di Trump (The Apprentice) –Regia: Ali Abbasi; sceneggiatura: Gabriel Sherman; fotografia: Kasper Tuxen; montaggio: Olivier Bugge Coutté, Olivia Neergaard-Holm; musica: Martin Dirkov; interpreti: Sebastian Stan, Jeremy Strong, Maria Bakalova, Martin Donovan; produzione: Scythia Films, Profile Pictures, Tailored Films, Kinematics; origine: Canada/ Danimarca/ Irlanda/Usa, 2024; durata: 120 minuti; distribuzione: BIM.
