Ogni uomo incontrerà ciò da cui vuole fuggire
Non è un paese per donne, l’Iran. Che queste siano donne di strada o donne di casa, in ogni caso non è un Paese per loro: la misoginia è certo parte dell’uomo e l’uomo non solo la coltiva, ma spesso persevera nell’ideale e agisce nel sangue. Corpi in sacchi, a bordo strada. Una moto che si allontana, una preghiera recitata poco prima. Ali Abbasi torna cinematograficamente nel suo paese – in realtà gli esterni sono girati in Georgia – e con Holy Spider tramuta una storia vera in un thriller essenziale spinto da regia e scenografia e soundtrack che seguono le regole del genere quando nella premessa si differenzia: il killer è svelato fin dall’inizio, e il vero colpevole è tanto il singolo quanto una società che è humus nel quale cresce l’omicidio di sedici donne. Anzi, diciassette quasi.
Città Santa di Mashhad, Iran. Mentre dall’altra parte del mondo due aerei abbattono altrettante torri, un serial killer massacra prostitute. Queste sono donne con una ciocca a uscire dal foulard colorato e quel foulard viene stretto da Saeed (Mehdi Bajestani), ex combattente e padre di famiglia, nella sua personale crociata contro il degrado dei costumi. Il cadavere viene poi portato a sella di motocicletta ai bordi di strade o campi, e lì abbandonato perché la polizia lo possa ritrovare dopo che una chiamata ne rileva la collocazione.
Come le sembra la sua voce via telefono?
Gioiosa, furiosa.
A interrogare il funzionario di polizia è Rahimi (Zar Amir-Ebrahimi), giornalista dal passato ritenuto scandaloso. La donna sa di muoversi in un mondo iper religioso e altrettanto maschilista, nel quale il silenzio è preferibile alla sua voce e sa altrettanto bene che dovrà giocarsi ogni possibile carta per prendere il serial killer. La polizia non sarà di aiuto, il suo essere donna, e quindi esca in una società patriarcale, sì. Fino all’ultimo respiro, il suo, e non solo.
Ali Abbasi gira un film potente. Non risparmia nulla all’occhio dello spettatore. Gli omicidi vengono mostrati nella loro interezza e così la deposizione dei cadaveri, lasciando splendidamente aperta la porta al macabro e crudo. Il corpo della prima vittima a cavalcioni della motocicletta di Saeed è per esempio la prima di tante scene, come lo è stato poco prima il suo strangolamento e come lo è la continua ricerca sul volto delle donne dei segni delle malattie e delle percosse dei clienti. Le regole del genere sono così rispettate e collocate temporalmente/spazialmente, e il montaggio come il soundtrack rilanciano una linea narrativa che saltella dall’azione del cattivo a quella della buona sino al punto spartiacque – scena da cardiopalma – che ribalta il gioco e sposta la missione divina del serial killer sul piano sociale e religioso. Lì entrano in gioco nuove dinamiche, perché
Sta ripulendo le strade al posto loro. Credi che lo arresteranno?
Al contempo è il tradimento delle premesse del genere a sostenere la pellicola. Il cattivo è lui, Saeed, lo si sa dalla prima scena, e l’intero film gioca sul mostrare il lato umano, famigliare dell’uomo. Perché oltre all’assassino c’è la persona e quella persona ha delle ragioni tutte sue per ammazzare una donna dopo l’altra:
Sono pazzo, sì, sono pazzo dell’Ottavo Imam!
Il contrasto tra padre buono e omicida è ciò che allora sostiene la pellicola. Dall’altra parte abbiamo una donna, Rahimi, che deve diventare chi non è per perseguire il suo scopo: da donna emancipata che si vede accusata di atti scandalosi, deve diventare donna di strada e confrontarsi con quel mondo:
Avete mai visto tipi loschi?
Qui sono tutti loschi.
Ma grande, grandissimo è anche il lavoro sui personaggi secondari. L’adozione di una mdp stretta sui volti e sulla direzione dei loro sguardi, riafferma come il paraocchi sociali non sia indossato soltanto dagli aguzzini, ma in primis dalle donne stesse. E così dai figli. In una delle scene più agghiaccianti il figlio di Saeed illustra passo per passo a una giornalista come il padre ammazzava le donne e gli fa da presunta vittima la sorellina. La sua espressione è fiera, e la sua innocenza è di una violenza tremenda.
Holy Spider è un thriller sociale che non vuole occultare ciò che è palese: in alcune zone del mondo le donne sono carne da sesso e da macello, poco altro. Abbasi rende il tema una pellicola efficace e avvincente capace di mantenere la tensione per tutta la sua durata e mettere a processo tanto un uomo come tutta la società che lo sostiene. Con un cast efficace, Zar Amir-Ebrahimi (vincitrice del Prix d’interprétation féminine a Cannes) e Mehdi Bajestani, il racconto tocca le corde giuste e le espressioni dei personaggi raccontano quanto il maschilismo non sia solo sangue e corpi senza vite, ma sia tanto interiorizzato da essere parte dell’anima. E così nelle poche riprese dall’alto la mdp parte da una motocicletta con un corpo vivo e un morto a bordo e si alza sempre più in alto, finché la città notturna emerge in tutta la sua grandezza e le luci delle strade compongono un ragno che avvinghia l’intera popolazione.
P.S.: la locandina più interessante dell’anno?
Al cinema dal 16 febbraio.
Holy Spider – regia: Ali Abbasi; sceneggiatura: Ali Abbasi, Afshin Kamran Bahrami; fotografia: Nadim Carlsen; montaggio: Olivia Neergaard-Holm; musiche: Martin Dirkov; interpreti: Zar Amir-Ebrahimi, Mehdi Bajestani, Arash Ashtiani, Forouzan Jamshidnejad, Sina Parvaneh, Nima Akbarpour; produzione: Profile Pictures, ONE TWO Films, Arte France Cinéma; origine: Danimarca, Germania, Francia, Svezia, 2022; durata: 115’; distribuzione: Academy Two.