Till-il coraggio di una madre di Chinonye Chukwu

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C’è un quadro dell’artista americana Lisa Whittington che raffigura il volto diviso a metà di un ragazzo nero, rappresentando sincronicamente insieme il prima e il dopo di un brutale e mortale pestaggio subito: si tratta del volto di Emmett Hill, un ragazzino di 14 anni che nel 1955 , durante una visita a dei parenti nel Mississippi, uno degli stati sudisti del Nord America più profondamente segnati dalle leggi razziali e da una cultura profondamente razzista, venne catturato e linciato da un gruppo di bianchi per il futile motivo di aver fatto un complimento alla commessa di un negozio, moglie di uno degli assalitori. Il cadavere venne poi gettato nel fiume e ritrovato completamente sfigurato alcuni giorni dopo. Mamie, la madre di Emmett, che era rimasta a Chicago, nell’Illinois (dove si era trasferita anni prima  con il figlio proprio per farlo crescere in un contesto più tollerante e meno pericoloso), completamente travolta dalla portata di quell’evento e distrutta dal dolore, fece una scelta che cambiò per sempre il modo di percepire la violenza  perpetrata con compiaciuta e gratuita crudeltà da parte dei neri contro i bianchi: autorizzò un fotografo a scattare delle foto di Emmett, che vennero pubblicate sulla rivista Jet, creando una profonda impressione su tutto un immaginario sommerso, di soprusi e angherie silenziose, che emergeva alla luce di una prova non più occultabile da una falsa coscienza separatista e segregazionista; inoltre, durante il funerale, la bara del ragazzo rimase aperta , lasciando completamente visibile quel volto ridotto ad Elephant Man di un circo di sadismo e ferocia, soprattutto in contrasto con il sorriso tenero e aperto alla vita di un Emmett alle soglie della pubertà, nelle foto precedenti all’ aggressione, che Mamie fece attaccare al di sopra della bara.

È importate raccontare i fatti per comprendere alcune scelte compiute dalla regista Chinonye Chuku in Till-il coraggio di una madre nel trasportare cinematograficamente la storia di Emmett e Mamie,  proprio perchè diventa fondamentale il rapporto tra visibile e invisibile, fino a che punto le conseguenze dell’ intolleranza possano tradursi nella tolleranza di ciò che può essere sostenuto dallo sguardo. In Un’arida stagione bianca, un film di fine anni ’80  Euzhan Palcy, una brava regista francese di origine sudafricane, aveva forse la mano un po’ greve nel descrivere le torture della polizia militare contro gli abitanti autoctoni del Sud Africa: almeno in una sequenza mostrava esplicitamente il corpo di un uomo massacrato e dal volto tumefatto , in un clima di esasperazione filmato fin dall’ incipit con un manifestazione studentesca, dove si vedono dei ragazzini colpiti di spalle dai proiettili dei soldati.  Chuku sceglie invece una progressione per arrivare all’immagine del volto deturpato , tenendo fuori campo la sevizie subite da Emmett, nel notturno campo lungo di un paesaggio di campagna da cui spunta la luce accesa e infiammata di un capannone dove si celebra il rito barbaro e sadico , e in sottofondo arrivano delle urla che sarebbero state probabilmente insostenibili in un primo piano acustico. Viene dunque suggerito l’orrore , che passa poi attraverso la bara chiusa e sigillata di Emmett in arrivo alla stazione dal Mississippi all’Illinois , e poi il disvelamento del lenzuolo sul tavolo dell’obitorio voluto da Mamie. E si tratta anche dell’aspetto più interessante e convincente di questo film che chiaramente è impregnato di quel sentimento di indignazione da dramma sui diritti civili dove spesso è andato a parare il recente cinema americano specialmente in una prospettiva di Black live Matters   (tra gli altri, Selma- la strada per la libertà, sulla prima marcia per i diritti civili organizzata da Martin Luther King, e Harriett, sulla vita di Harriet Tubman, paladina ottocentesca delle battaglie abolizioniste contro la schiavitù: due film, peraltro , diretti entrambi da donne, rispettivamente Ava DuVernay e Kasi Lemmons). Il rischio dunque è che la necessità di suscitare una riflessione storica e politica su degli avvenimenti che si ripercuotono inevitabilmente sulla contemporaneità e sulla cronaca ( una nuova ondata di indignazione e preoccupazione è scaturita dopo l’omicidio di George Floyd  per mano di alcuni poliziotti bianchi durante una barbara procedura d’arresto), prevalga sull’essenziale ricerca e cura del linguaggio cinematografico, sulla riflessione, strettamente connessa a implicazioni estetiche e politiche, sul come , oltre che sul cosa raccontare.

Nella prima parte, incluso un tenero incipit in cui con poche battute di danza e musica viene detto il legame profondo tra Mamie e Emmett, c’è una tensione in crescendo , fino al momento dell’esecuzione, del ritrovamento e del funerale che, come dicevamo, propone una prospettiva attraverso cui guardare la profondità del cuore nero di un paese che ancora non ha fatto in conti con molte delle sue contraddizioni: la violenza di una civiltà arcaica perlopiù rurale e provinciale contro l’apparente civilizzazione e tolleranza delle grandi città verniciate dalla falsa coscienza capitalistica e consumistica. Mamie inizialmente pensa infatti di poter tutelare se stessa e il proprio figlio mimetizzandosi nel sogno conformista delle belle speranze post belliche , prima del traumatico risveglio al capezzale del corpo/testimonianza di Emmett. Ma da questo punto in poi il film segue invece una più convenzionale direzione di legal drama a sfondo razziale, con il processo nei confronti degli assassini del giovane Till, celebrato nell’aula dei malcelati pregiudizi di un tribunale del Mississippi, dove Mamie , con tutta la sua dignità e consapevolezza, già sa come andrà a finire e che quella sentenza sarà l’inizio per cominciare il suo impegno comunitario, la sua battaglia in nome di uno e di tutti. L’eccesso di enfasi e di melodramma materno  , finalizzato a creare un processo di empatia immadiato con lo spettatore più che a rendere incisiva la rappresentazione, alla fine soffoca un po’ le potenzialità dello sguardo della regista e le scene, letteralmente “madri”, della pur brava protagonista Danielle Deadwyler (forse in vista di qualche prestigioso premio che poi non c’è stato) risultano un po’ troppo  forzate, sottolineate, costruite.

Forse meglio tornare a quell’immagine del quadro scisso tra normalità e mostruosità, la doppia anima di una società esplosa nel corto circuito tra un sorriso innocente e uno smorfia grottesca. Tutta la misura tra l’apparenza e la sostanza delle cose.


Till  – Regia: Chinonye Chukwu; Sceneggiatura: Michael Reilly , Keith Beauchamp, Chinonye Chuku ; Fotografia: Bobby Bukowski; Montaggio: Ron Patane; Musica; Abel Korzeniowki; Interpreti: Danielle Deadwyler, Jalyn Hall, Frankie Faison, Whoopi Goldberg, Jayme Lawson, Tosin Cole, Sean Patrick Thomas, Roger Guenveur Smith; Produzione: Orion Pictures, EON Productions, Frederick Zollo Productions, Whoop, Inc.; Durata: 130 minuti; Origine: USA, 2022; Distribuzione: Eagle Pictures.

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