In cuor nostro, almeno in riferimento alla comunità cinefila che in queste ore e nei prossimi giorni ricorderà l’incontro fatale ed entusiasmante con il suo cinema (in un crocevia di immagini, citazioni, frammenti che stanno tramutando lo spazio virtuale dei social media nel subconscio espanso di un immaginario collettivo), tutti noi speriamo che la morte di David Lynch possa essere accaduta come se ci trovassimo in un film di David Lynch; un passaggio, una fessura, il rewind di un sonno profondo dal quale ogni volta ci si risveglia con una pelle diversa, ma con lo stesso cuore dilaniato tra pulsione e ossessione. La spirale di visioni sovraesposte nel continuo flusso di una dissolvenza al calor bianco oppure al calore del fuoco che cammina con me/noi nel verticale abisso della necessità di essere guardati/amati non ammette la fine ma, al massimo, il silenzio. Si chiudeva proprio con questa parola pronunciata- e che in quanto tale ne contraddiceva il senso – Mulholland Drive (2001) divenuto, suo malgrado e per un’intrinseca ed eccendente potenza espressiva nella messa in abisso del meccanismo umano/non umano della messa in scena, un’opera iconica, celebrata, stilata nelle classifiche dei critici come il film del millennio, spostata ancora da un’altra parte rispetto al punto di partenza, quello del pilot di una possibile serie televisiva, che sarebbe stata probabilmente epigona di Twin Peaks; quest’ultima sarebbe continuata comunque a germinare e a proliferare autonomamente anche nel ventunesimo secolo, con il terzo unicum capitolo, tra videoarte, installazione, cinema nella sua accezione più nucleare di linee, movimento, performance concettuale dei corpi attoriali e dell’apparato audiovisivo, puro gesto d’ingegno e di libertà.
E lo scenario terminale, sempre in Mulholland Drive, era proprio quello di un teatro dove si era celebrato lo smascheramento dell’inganno e del tradimento, dei morti e dei vivi, dei fantasmi e della carne. E lì che finiscono Betty e Rita, amanti s-doppiate tra mistero e trasparenza (è la loro la più bella, tenera e disarmante scena d’amore “lynchana”) a cercare letteralmente la chiave dell’intrigo noir che non riguarda il fatto criminoso in sé , mai cosi utilizzato come pre -testo, ma la ricerca della propria identità, smembrata e smentita nella decriptazione di un nome e di un indirizzo, di uno stato e di una stabilità. Non c’è una banda e non c’è un’orchestra, eppure ci sono entrambe, lungo la frequenza sonora che travalica il confine di quello che percepiamo visivamente, oppure sulla superficie tridimensionale di un’immagine che tracolla sotto il peso della non sincronicità, come il corpo di Rebekah Del Rio sulle note troppe dolenti e riecheggianti di llorando. Ed è Betty che sarà poi Diane che sarebbe diventata Betty a vibrare di stupore e tremore di fronte a quello spettacolo, senza poter comprendere se si tratti di reale sussulto e fremito oppure semplicemente di un altro effetto speciale, materico e insieme impalpabile, rispetto a quelli che ha visto poco prima sulla scena. La sensazione che resta è quella di un alternarsi di scomparse e ricomparse, di epifanie e di nascondigli, di antri squarciati come ventri dai quali rigenerarsi senza soluzione di continuità, in una partenogenesi inesauribile di immagini e suoni.

Le creature di Lynch, quelle apparentemente mostruose e ripugnate eppure illuminate dall’interno da un’abbagliante grazia esistenziale, hanno portato sui loro corpi martoriati i segni di una vitalità che ne riscatta la condanna sociale di emarginazione, isolamento, non visibilità. Henry di Eraserhead–la mente che cancella, John Merrick in The Elephant Man, ancora prima, tra gli altri, il protagonista feroce e sdentato della serie d’animazione Dumbland : i freaks di un circo privato dei colori e ridotto a palcoscenico di una sommessa, accennata esibizione che non può che concludersi in un taglio o in uno schiacciamento , nello sputare e rimasticare un pezzo di carne che diventa residuale materia industriale, le protuberanze tumorali e deformanti dell’uomo elefante, i collegamenti neuronali nevrotizzati di un cervello in tilt e in allarme psicosi. C’è sempre elettricità e luce in un film di Lynch in collegamento con la stessa presenza o assenza dei personaggi in carne e ossa, soggetti non semplificabili dentro la soluzione e la spiegazione di una dicotomia tra buio e luce. La cesura e la ferità non servono per separare il mondo emerso da quello sommerso, la razionalità ordinata del piano superiore dalla pulsione caotica del sottosuolo. Dorothy Vallens, nella nudità ferita e scheggiata del corpo extra e anti glamour di Isabella Rossellini, abbraccia e quindi crea un legame, slabbrato nei margini di un taglio, con la permeabile corteccia dei corpi giovani e spauriti, attratti e repulsi, di Kyle MacLachlan e Laura Dern in Velluto blu, e perfino il sadismo brutale di Frank/Dennis Hopper è pervaso da momenti di infantile eccitazione di fronte all’esecuzione, comunque perversa e perturbante, di un brano che evoca la soavità fanciullesca di un sogno (Dean Stockwell che canta In Dreams di Roy Orbison).

La stratificazione delle dimensioni percettive, poi ricercata al di fuori del dispositivo cinema nella pratica e nella diffusione della meditazione trascendentale, che, molto prima che il concetto di multiverso si facesse abusato congegno narrativo, è stata introdotta nella fascinazione della fabula, facendone una profondità senza fondo, la visione abissale per eccellenza; la trasmutazione del personaggio maschile di Strade perdute ( dal marito uxoricida Bill Pullman al giovane irrequieto Balthazar Getty, e viceversa) è l’affondo cronenberghiano nella carne in fuga dalle costrizioni del sense, in favore dello spiazzamento surrealista del non sense, mai però calato dall’alto o imposto come esercizio di manipolazione dell’immagine e del racconto. Al contrario c’è tanto rigore e tanta disperazione nella constatazione dell’assurdità della vita e del suo ostinato e paradossale attaccamento ad essa, come quello di Laura Palmer che, nonostante dica di sé, “Sono lontana, una creatura andata come un tacchino incenerito…”, è la più vitale e intensa figura creata dalla mente di Lynch, esondante la stessa proiettiva fissazione altrui, quella dei personaggi di Twin Peaks e di noi spettatori, e lo spazio tempo della serialità televisiva, riprodotta da qualsiasi tipo di schermo e di supporto video, come una warholiana Marilyn del disagio. E la tante stanze rosse e nere che si aprono e chiudono in Inland Empire-l’impero della mente, backstage frantumato del teatro simulato in Mulholland Drive, diventano i luoghi e i non luoghi, in perenne conformazione e disfacimento, dentro i quali Laura Dern si perde e si ritrova, si spoglia della patina HOLLYWOODIANA, si ricopre di uno strato di ineluttabile tragedia il cui significato sta nella coazione a ripetere, nel girare intorno allo stesso punto, nello sfaldarsi di un’idea fissa e isterica oltre l’orizzonte consolatorio di un sublime estetico, abbandonandosi alla deriva del mare magnum della follia creatrice, dentro il nocciolo del nostro guscio.
Quel nocciolo dal quale David si augurava che l’anziano attore George Burns sarebbe sgusciato come una pesca matura rugosa una volta morto. Forse adesso mi piacerebbe chiedergli se è successa la stessa cosa anche a lui e se, come pensava, è stato bellissimo.
