-
Voto
La svolta di Riccardo Antonaroli racconta la vicenda di due persone ferite dalla strada, l’uno per averla vissuta, l’altro per averla fuggita, e nel farlo pecca di qualità. Non in difetto, però, ma in eccesso. La meticolosità cinematografica, infatti, non deve mai dimenticare una cosa: il reale è (si legga: deve essere) imperfetto e perciò l’immondizia prima di tutto deve ‘fare schifo’. Anche, e soprattutto, quando tra di essa ci stanno 500 mila motivi perché ‘schifo’ non faccia.

Ludovico (Brando Pacitto) ha paura del mondo, almeno di quello reale, meno di quello dei fumetti. Vive recluso finché nelle quattro pareti domestiche non lo riportano con una pistola puntata alla schiena. Jack (Andrea Lattanzi) ha appena rubato un borsone pieno di soldi dal rifugio di un boss locale, è volato dal motorino e ora è braccato dai ‘pischelli’: a puntare quella pistola alla schiena è proprio lui. Inizia così un rapporto a due nel quale la sindrome di Stoccolma diventa motrice di affetto bilaterale tra chi fino ad allora ha preso ansiolitici e chi invece pugni e coltellate. Ognuno ha qualcosa da dare all’altro: Ludovico deve uscire dalla propria reclusione e relazionarsi con Rebecca (Ludovica Martino), Jack deve scappare da Caino (Tullio Sorrentino) per raggiungere il fratello che vive (ancora?) in Brasile. Sulle loro tracce lo scagnozzo del boss, Spartaco (Max Malatesta), alle sue rispettive spalle, con il mirino puntato in caso di fallimento, un sicario (Marcello Fonte). In una giostra di aguzzini e vittime, il finale tirerà le somme e non è detto che un vero vincitore ci sia, soprattutto se non si è compreso quale sia la posta in palio: denaro o affetto?
Riccardo Antonaroli firma un film puntiglioso, almeno per quanto riguarda fotografia, scenografia, musica e costumi. Ogni scena è infatti estremamente curata: luci, arredi e vestiti si richiamano tra loro e le tonalità dominanti iniziali, verde e arancione, si modificano con l’evolversi della vicenda fino a raggiungere i terminali blu e rosso. Il movimento della mdp è anch’esso attento, ma spesso affonda in uno studio che nella ricerca dell’imprevedibile cade nell’opposto, a volte persino tocca il citazionismo, quello più stancante.
Ciò che ne emerge, insomma, è un’attenzione spasmodica per il dettaglio, e questo è il problema: tale accuratezza finisce per abusare del genere, il thriller, e per buona parte del film si ha la percezione che si abbia avuto più a cuore ciò che compone la storia, una precisa atmosfera metallica, che la storia stessa. Personaggi e (vicendevolmente) sceneggiatura, ne sono le prime vittime (nonché complici). Il boss di turno, «un cravattaro tutto doppio petto e profumo» con la fissa del parlare pulito, è credibile ma non appassiona, il sicario non fa paura perché sa di già visto, si salva in parte lo scagnozzo ribelle, Spartaco, per l’ottima interpretazione di Malatesta, mentre per i due protagonisti gli alibi sono veramente pochi.
A volte devi capire quale sia il reale peso di ciò che hai trovato: vale più una borsa da mezzo milione di euro o un fratello? Si necessita del tempo per elaborare la decisione e nei film, si sa, il tempo non c’è. Bisogna saperlo sfruttare, soprattutto se sei un personaggio. Nel fare ciò Jack fallisce, mentre nel dargli vita Andrea Lattanzi non se la cava male: è efficace nel ruolo del teppistello forgiato dalla strada, però il suo compito è semplificato dal fatto che il peso della storia non ricada sulle sue di spalle, bensì su quelle del collega, Brando Pacitto. Il suo Ludovico è un personaggio debole, quindi tutt’altro che facile da interpretare, e finisce per essere la colonna di sabbia della pellicola, a braccetto con una sceneggiatura a singhiozzo che lo ostacola in vari modi: troppe le frasi fatte tirate in ballo, alcune pure efficaci («Onesto per paura non per principio»), altre no («So di non sapere…boh»). La retorica, insomma, è dietro l’angolo. Ciò che ne emerge è uno squilibrio poco fertile, da una parte regia e fotografia alla ricerca dell’eccellenza, dall’altra personaggi e sceneggiatura prevedibili o latitanti: una gamba non rispetta il passo dell’altra, il risultato è che entrambe cadono in errore.
Una volta un grande regista nostrano disse che il cinema è essenzialmente un lavoro per dilettanti. Con questo non voleva dire che dovesse mancare professionalità o qualità, ma che queste, entrambe, non sono sufficienti. Si riprenda l’inizio della recensione nonché della pellicola: per riportare l’immondizia sullo schermo saper utilizzare gli strumenti del mestiere è fondamentale, per farla puzzare però ci vuole anche altro. Che cosa sia questo altro, poi, è il segreto di ogni buon film.
La svolta – regia: Riccardo Antonaroli; soggetto: Gabriele Scarfone; sceneggiatura: Roberto Cimpanelli, Gabriele Scarfone; fotografia: Emanuele Zarlenga; montaggio: Esmeralda Calabria; musica: Michele Braga; scenografia: Sonia Penga, Paola Soldini; interpreti: Andrea Lattanzi, Brando Pacitto, Ludovica Martino, Max Malatesta, Chabeli Sastre Gonzalez, Federico Tocci, Tullio Sorrentino, Cristian Di Sante, Aniello Arena, Grazia Chiavo, Claudio Bigagli, Marcello Fonte; produzione: Rodeo Drive, Life Cinema con Rai Cinema; origine: Italia, 2021; durata: 95’.
