Anche io di Maria Schrader

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È il 2017, l’anno in cui in America sembrava andare tutto bene. È un periodo di transizione: nell’ aria ancora si avverte il rumore bianco del decennio precedente, gli Stati Uniti sono la Terra Promessa del vecchio e del nuovo millennio, il grande sogno che realizza ogni sogno, la Mecca di chi “cerca fortuna”. Trump ha appena vinto le elezioni e si prepara a prendere il posto di Barack Obama: Freud lo chiamerebbe “ritorno del rimosso”, benché di “rimosso” non ci sia molto. I conservatori ridono sornioni e si sfregano le mani, i progressisti sfoggiano pubblicamente la propria indignazione, preferendo sfregarsi le mani in privato (è una pratica più igienica e civilizzata). La vita continua, fra le strade trafficate di New York e i lussuosi alberghi della California in cui stagiste e future star vagano inermi. Nel 2017 non cambierà nulla – del resto, perché dovrebbe?

Forse, per disinnescare questa giungla tossica e lussureggiante chiamata Hollywood, serve una voce europea: forse serve Maria Schrader, nota attrice e regista di Hannover qui improvvisatasi reporter d’assalto. Della Schrader ci ricordiamo per Rosenstraße (2003), l’opera forse più “commestibile” e “Heritage” della Margarethe von Trotta, ma anche per la sua collaborazione con Doris Dörrie (Bin ich schön?, 1998) e Dani Levy (Meschugge, 1998), veterani del cinema tedesco unificato. Chi, invece, non conservi particolare memoria della Germania post-muro, ripenserà forse a Vor der Morgenröte (2016), l’epopea biografica incentrata sull’esilio oltreoceano del noto scrittore Stefan Zweig che valse all’autrice la candidatura a svariati premi (poi irrimediabilmente mancati).

In Anche io, tuttavia, si cambia registro: il film sembra essere il più “statunitense” dell’intera filmografia targata Schrader, la New York decadente e disordinata in cui le vicende si svolgono somiglia a quella dei colletti bianchi che popolano The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese. Qui, però, di colletti bianchi si parla soltanto in maniera indiretta: la pellicola, incentrata sull’inchiesta che portò alla luce il cosiddetto “Caso Weinstein”, s’inserisce più volentieri all’interno di una costellazione cinematografica che va da Il Caso Spotlight (Tom McCarthy, 2015) a The Post (Steven Spielberg, 2017) e nella quale gli eroi non sono eroi ma il loro esatto opposto – ovvero, i giornalisti. Proviamo una strana soddisfazione a osservare ciò che accade dietro le quinte, a sgambare fra un taxi e l’altro armati di caffeina e una buona dose di scetticismo, a scardinare il sistema attraverso il picchiettio taumaturgico di una tastiera. Le corrispondenti del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey (qui interpretate dalla brillante coppia Zoe KazanCarry Mullighan) soddisfano pienamente le nostre aspettative: ci troviamo di fronte a due donne intraprendenti e risolute, capaci di dosare empatia e cinismo per ritagliarsi un posto d’onore fra le colonne dell’arcinoto quotidiano.

Per chi non lo sapesse, Kantor e Twohey sono le autrici dell’inchiesta che cambiò per sempre la nostra percezione di “America”. O forse no. L’articolo s’intitola, per l’appunto, She Said, e punta il dito contro l’agognata Terra Promessa a cui ogni “cacciatore di fortuna” anela. Il simulacro vivente della Mecca statunitense, della Hall of Fame dorata sulla quale camminano solo celebrità e futuri Dèi del grande schermo, ha un nome e un cognome: Harvey Weinstein. Esiste però un’altra realtà, più ombratile, anonima, perennemente in esilio, una realtà sottocutanea che si estende dalla Hollywood patinata e appiccicaticcia dei grandi produttori al red carpet dei festival su cui sfilano corpi perfetti e macchine fotografiche. Anche questa realtà ha un nome, anzi, ne ha più di uno: Rowena Chiu, Laura Madden, Zelda Perkins, Ashley Judd, tanto per citare i più noti. Sotto l’occhio vigile e attento delle due giornaliste, il vaso di Pandora viene scoperchiato una volta per tutte: ne emerge una colossale tela di ragno in cui vige l’assoluta omertà, in cui i rapporti interpersonali sono asserviti alla logica dello scambio e dello sfruttamento (almeno in apparenza) reciproco, in cui le donne non sono più donne ma semplicemente “lavoro”.

Attenzione, nessuno afferma d’aver scoperto l’acqua calda: ciò che differenzia l’inchiesta di Kantor e Twohey dalle precedenti è la capacità di restituire voce al silenzio, ovvero di citare le fonti in modo diretto. È il 2017, ed è la prima volta che le vittime si espongono alla stampa. L’effetto domino che ne consegue ha esiti devastanti, ancora oggi le tessere ruzzolano come se non dovessero mai fermarsi, come se ne emergessero sempre di nuove all’orizzonte. Il resto è ormai storia.

Attraverso la penna della sceneggiatrice britannica Rebecca Lenkiewicz, Maria Schrader dipinge un quadro di genere estremamente lucido e sagace, mettendo in scena l’America di Trump (che è poi quella di Biden o di chiunque altro) senza mai mostrarne il volto. La regista inverte le regole del gioco: da buon simulacro, Weinstein non appare che di spalle, nella breve sequenza che chiude l’inchiesta. Privato del proprio corpo, il carnefice si confonde nella sua stessa ragnatela, lasciando il posto a chi, un posto nel sistema, non l’ha mai avuto. Al di là di qualche digressione dal retrogusto un po’ retorico e un po’ “alla Shonda Rhimes”, il lungometraggio riesce a mantenere il tono sobrio del reportage, limitandosi a incastrare fra loro le tessere del (guarda caso!) mastodontico puzzle hollywoodiano in cui troneggia la chimera del potere e del prestigio.

 

Delle successive valanghe mediatiche non viene fatta menzione: il sipario si chiude l’attimo prima della catastrofe, risparmiandoci il consueto tribunale dell’opinione pubblica nel quale le singole voci si disperdono. Come ripetono i direttori esecutivi del New York Times Rebecca Corbett e Dean Baquet (qui Patricia Clarkson e Andre Braugher), “basta che sia solido” (si legga: “allegare prove”).

È il 5 ottobre 2017, dunque, l’anno in cui in America e nel mondo sembrava andare tutto bene. Il resto, come già affermato, è ormai storia.

In sala dal 19 gennaio 2023


Cast & Credits

Anche io (She Said) – Regia: Maria Schrader; sceneggiatura: Rebecca Lenkiewicz;  fotografia: Natasha Braier; montaggio: Hansjörg Weißbrich; interpreti: Carey Mulligan (Megan Twohey), Zoe Kazan (Jodi Kantor), Patricia Clarkson (Rebecca Corbett), Andre Braugher (Dean Baquet), Jennifer Ehle (Laura Madden), Lola Petticrew (Laura giovane), Samantha Morton (Zelda Perkins), Molly Windsor (Zelda giovane), Ashley Judd (sé stessa), Zach Grenier (Irwin Reiter), Peter Friedman (Lanny Davis), Tom Pelphrey (Jim Rutman), Frank Wood (Matt Purdy), Adam Shapiro (Ron Lieber), Angela Yeoh (Rowena Chiu), Sean Cullen (Lance Maerov), James Austin Johnson (Donald Trump – voce), Sarah Ann Masse (Emily Steel), Keilly McQuail (voce di Rose McGowan), Anastasia Barzee (Lisa Bloom), Mike Houston (Harvey Weinstein), Gwyneth Paltrow (sé stessa – voce); produzione: Annapurna Pictures, Plan B Entertainment; origine: USA 2022; durata: 129’; distribuzione: Universal Pictures.

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