Strade perdute di David Lynch: un flashfoward dal 1997

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Nel 1997, alle soglie di quel crocevia di aspettative e presentimenti che è stato il passaggio tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, fece la sua apparizione un (s)oggetto perturbante e misterioso come Strade perdute (Lost Higway) tornato ora in sala in una versione restaurata in 4k: forse la più radicale opera/creatura di David Lynch sul valore fondativo degli immaginari multiscreen rispetto ad identità sempre più  esplose e frammentate, contenente un fosco nucleo da Cuore selvaggio, debitore ancora una volta della collaborazione in fase di soggetto e sceneggiatura con lo scrittore Barry Gifford ( autore del romanzo da cui era tratto Wild at Heart).

Nella sua rigorosa e insieme allucinata rappresentazione di surrealiste suggestioni buñuneliane rimodellate su corpi trasmutanti così accostabili alle nuove carni di David Croneberg, seppur legati all’espressione viscerale dell’inconscio onirico più che a una strutturata, materica visione di un’ umanità tra derive e approdi, Lost Higway (la traduzione italiana nel  plurale Strade perdute  attutisce quel senso di smarrimento di un viaggio esclusivo senza andata e senza ritorno) resta un’esperienza che ci pone sempre al di fuori del tempo del visibile e del consueto, e ci trasporta nello straordinario che sta dall’altra parte dello specchio. Come se fossimo degli Alice catapultati in una Wonderland alterata di pulsioni di vita e di morte.

La struttura dal punto di vista narrativo, come sempre in Lynch, è di una cristallina precisione e linearità, dentro la quale ogni segno, ogni dettaglio, ogni (falso) movimento coincide in una dicotomia suddivisa in una  prima e una seconda parte, perfettamente combacianti e speculari.

In questo caso c’è un inizio dalle venature horror/noir, un mood di paura e delirio a Los Angeles, costruito con pochi, significativi elementi: un musicista jazz che viene perseguitato assieme alla moglie da un metistofelico e obliquo personaggio che recapita loro in forma anonima videotapes dove vengono osservati  e spiati  fin dentro la tormentata, irrisolta intimità di una quanto mai obscura camera da letto.

Immerso in un buio che sfuma dagli abissi di un color porpora mortifero, questo incipit kafkiano si apre, si chiude e si riapre sulla falsa verità di un omicidio (di cui la riproduzione video ne è la sovrimpressa prova psicotica quasi autogenerata dal senso di colpa e di impotenza del protagonista).  Ed è il preludio ad un letterale cambio di marcia, nella direzione di un carnale melodramma (con il contorto, cerebrale musicista jazz liberato nell’animalesco eros di un prestante giovane meccanico), illuminato dal biondo platino del corpo espanso e multiplo in duplici e triplici fattezze da dark lady (perfino in una sorprendente variante maschile) di Patricia Arquette, ultima fermata di tutte le “donne che vissero due volte”. È  incredibile percepire l’ispezione precorritrice dello sguardo lynchiano su dove sarebbe andata ad infrangersi l’ossessione/nevrosi dell’uomo contemporaneo, sparsa sulle superfici che ne riflettono, amplificano e registrano implacabilmente (il reiterato uso di labirintiche carrellate per gli stretti cunicoli/corridoi) l’indole violenta, mistificatrice, morbosa.

Ogni immagine possiede un’angolatura, una svolta, un detour, spostamenti progressivi e talvolta improvvisi che non solo spiazzano e sorprendono,  riportandoci a una pura, quasi fanciullesca impressione di spavento e meraviglia; a saper ben guardare e sentire ci posizionano davanti a una condizione di oppressione e ripiegamento, dalla quale sembra possibile liberarsi, uccidendo l’immagine feticcio di un desiderio sempre più estraniato oppure producendo psicosomatici alter ego e altrove come fa in una perenne  trance  lo scisso e psicotico Fred/Peter del film.

Una prospettiva sensibile nella paranoia apocalittica di fine millennio, declinata con diverse varianti di sguardi e focalizzazioni (sono dello stesso anno  i wendersiani Crimini invisibili che riflettevano sulla trasformazione ontologica e percettiva della violenza in una società sempre più  controllante e digitalizzata).

E,a differenza dello speculare Mulholland Drive, dove la vertigine è tutta chiusa e ripetuta nel sottobosco hollywoodiano di disperate dalie nere fino al silencio dopo lo sparo, questa anticipatoria strada perduta continua a viaggiare a fari accessi nella notte, in una proliferazione di nuove trasformazioni e nuovi inizi. Proiezioni che sradicano le percezioni dell’impero della mente e aprono ad uno spazio e a una possibilità: perdersi è dunque meraviglioso. Meraviglioso.

In sala dal 16 gennaio 2023


Strade perdute (Lost Higway) – Regia: David Lynch; sceneggiatura: David Lynch,Barry Gifford; fotografia: Peter Deming; montaggio: Mary Sweeney; musiche: Angelo Badalamenti; interpreti: Patricia Arquette, Bill Pullman ,Balthazar Getty, Robert Blake, Robert Loggia,David Lynch; produzione: CiBy 2000, Asymmetrical Productions;  origine: Usa,1997; distribuzione: Cineteca di Bologna.

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