Il tango non è una danza, è un’ossessione.
Un uomo vestito rigorosamente di nero siede a lato. Tra le mani ha un bandoneón. Poco prima, spiando sotto al sipario, si intravedevano le ombre di passi muti e in movimento, quando però il sipario si alza, loro non ci sono più. Suoni da barrio aleggiano intorno al palcoscenico. Sono rumori vivi e abbandonati, da strada o mercato di rione. Siamo in mezzo al popolo, nel caos popolare. Poi i rumori diventano note e il caos inizia a scandirsi, diventa un dos por cuatro, e il popolare si fa ordinato, quasi elegante. A questo punto quei passi intravisti diventano visti, 8 ballerini trovano il palcoscenico, e inizia così quella violenta e fragile seduzione chiamata tango.
C’è però qualcosa di strano. I ballerini sono divisi, lontani. L’ultima memoria che hai del tango è che sia un ballo di coppia e quindi quegli 8 dovrebbero essere a logica otto corpi tanto stretti da essere quattro e il loro abbraccio, o la presa, non dovrebbe mai essere sciolta. Eppure ognuno è per conto suo, a tendersi lentamente e poi rapidamente a tagliare l’aria. In sincronia, certo, ma a se stanti, e allora si torna alla musica e ci si accorge che anche lì qualcosa suona strano. La fisarmonica non è sola e altre sonorità la accompagnano, violini clarinetti paniforte, e d’un tratto ti accorgi che quello in cui sei immerso non è il solito tango da milonga, è un tango nuovo, è il tango nuevo di Astor Piazzolla.
Cambiano i presidenti e non ci si lamenta, cambiano vescovi, cardinali, giocatori di calcio, qualunque cosa ma il tango no, quello deve rimanere antico, noioso, ripetitivo.
Astor Piazzolla fu per il tango quello che Gesù era stato per gli ebrei. Nemo propheta in patria, genio al di fuori, rivoluzionario nel suo tempo. Il tango nasce sul finire dell’Ottocento, e quando lui ci mise mano a metà Novecento aveva un’identità musicale ormai definita che non poteva essere modificata senza sollevare critiche nostrane. Fu però questione di tempo, la resistenza non aveva un fondamento reale: il tango nasce come contaminazione di suoni indigeni, europei, caraibici, africani e asiatici, e quindi una purezza di fondo mai è esistita. Anzi, si può dire che il tango è l’anti-purezza e probabilmente la tensione che gli pertiene viene proprio dall’essere prodotto del pueblo, privo di un canone definito che non sia il bollore popolare. Astor rivoluzionò così il tango nelle sonorità, ma si dovettero attendere gli anni ’90 perché non solo la musica ma pure il movimento mutasse. Nasce l’epoca del tango nuevo-danza e il ballo si fa singolo, così il gesto.
Non più sequenze o addizione di passi, ma il solo movimento analizzato e portato alle sue massime potenzialità, magari contaminato con la danza classica. Perché è lì, nel gesto, che vi è immagazzinamento di energia e poi proiezione della stessa, energia che nelle figure tradizionali era invece ricaricata e dissipata di continuo, in modo incessante, senza che potesse raggiungere picchi ricercati. E i picchi estremi, i nostri danzatori del Balletto di Roma, non fanno altro che ricercarli: singoli, in coppie, poi in trio, tornando gruppo e poi suddividendosi di nuovo. Un continuo gioco di ricerca e fuga che è tanto incontro quanto scontro di corpi e sguardi. Osservare ed essere osservati, stropicciando gli occhi per vedere qualcosa che si spera, e si sa, non si vedrà mai. Perché il tango è seduzione, e c’è una regola fondamentale e non scritta della seduzione:
Ciò che nega lo sguardo non può che attirarlo.
Per questo motivo, se il milonghero siede in disparte a tessere la musica, loro 8 invece non distolgono lo sguardo dall’altro. È tensione. Il corpo che si piega, si tende, si lancia, viene preso e viene posato è studiato da chi ne entra in contatto, da chi, a lato, siede in attesa del suo turno, e da chi, sulle poltrone, è spettatore. Lui, noi, vediamo allora energia pulsionale visibile, palpabile, che si agita sulla scena come i mulinelli solitari che in primavera si aggirano per i campi. Sale e si spegne, lava riversa nell’oceano. Così intorno ai ballerini le fiamme divampano e si estinguono, il punto massimo, quello del classico tango a due, non viene raggiunto se non per pochi attimi, e poi si è di nuovo ognuno per sé e ognuno per tutti, mentre quel lamentoso combattimento chiamato tango, e ora scomposto nel tango-nuevo, urla di nuovo una verità non scritta: il tango è il Sud America e il Sud America vive di amore e morte, e ciò che non è né l’uno né l’altro è solo aspirazione dilaniata degli stessi. La via media, la mediocrità controllata, è lasciata all’Occidente, qui invece si vive di forti emozioni, sospirandole ma senza poterle toccare o vederle. Come il bambino che si copre la vista con la mano, e comunque spia tra le dita senza mai chiudere gli occhi. Lui, noi, loro siamo tutti magnificamente sedotti, e così insieme ardiamo.
Spettacolo in scena dal 19 al 25 dicembre al Teatro Quirino, Roma.
Astor – Un secolo di Tango – regia: Carlos Branca; concept: Luciano Carratoni; coreografia: Valerio Longo; musica: Astor Piazzolla; arrangiamenti e musiche originali: Luca Salvadori; light designer: Carlo Cerri; costumi: Silvia Califano; bandoneón e fisarmonica: Mario Stefano Pietrodarchi; danzatori: Balletto di Roma.