Beau ha paura di Ari Aster

  • Voto
3

Ambientato in un presente alterativo, Beau ha paura è il ritratto pluridecennale di un uomo molto ansioso (Joaquin Phoenix), che ha un tormentato rapporto con la madre, una donna molto autoritaria mentre non ha mai conosciuto il padre ed è cresciuto sentendo l’assenza di questa figura. Quando Beau scopre che sua madre è morta, intraprende un viaggio verso casa, durante il quale dovrà affrontare varie e assurde minacce soprannaturali.

Il prologo dal quale è stato generato l’ultimo film di Ari Aster, Beau ha paura, si trova nel (quasi) omonimo cortometraggio del 2011, Beau, ovviamente sempre diretto da Aster, in cui un uomo di mezza età in procinto di andare a trovare la madre, lascia un attimo per distrazione le chiavi attaccate fuori dalla porta, salvo poi non trovarle più e cominciare a vivere nella paranoica attesa di una possibile aggressione. Questo lucido e assieme allucinato short cut, teatrino dell’assurdo beckettiano rivisitato dal Polanski de L’inquilino del terzo piano, durava appena 6 minuti; non si può quindi  non usare la parola genesi per aprire un discorso sulla versione lunga di  179 minuti, che si estende come un lacerato e larvale organismo vivente lungo l’articolata, espansa messa in scena di quella scena primaria, includendo tutti i piani, le direzioni, i campi fuori e i fuori campo; l’esibizione di un work in progress  che smarrisce , non si capisce bene se per programmatica volontà di spiazzare  o se per ipertrofia di ispirazione,  precisione e compattezza. Una continua, epifanica intuizione che vorrebbe farsi sguardo e invece rimane più un succedere e un succedersi di tante visioni in potenza. Eppure, quell’incipit/apertura intrauterino/a sulla nascita diegetica di Beau, in reverse rispetto al movimento penetrante/estirpante della vagina in soggettiva durante le scene degli aborti in Blonde, contiene già pochi, essenziali elementi capaci di seminare disagio e scoramento: il venire al mondo come evento traumatico, i gemiti filiali che si sovrappongo alla voce materna nel passaggio dal suono indefinito al verbo inudibile, il dubbio/angoscia che è già prigione semantica e ontologica (Che cosa gli state facendo? chiede ansimante la madre di Beau, mentre il medico gli verga il piccolo sedere arrossato con una sonora stoccata di mani ).

E Beau resta di fatto intrappolato nelle sembianze e nell’essenza di un bambino per il quale il mondo, imprecisato in qualsiasi collocazione spazio-temporale fino all’esplicita dimensione fiabesca di un bosco degli incanti e degli orrori, è la manifestazione punitiva di un luna park spaventoso, da attraversare con la stessa nudità e vulnerabilità fetale, riannodando un cordone ombelicale mai reciso e fattosi immaginario derivativo di un’ossessione, di una dipendenza, di un rimosso. La prima parte in casa, che riprende l’impianto del corto,  possiede da questo punto di vista una forza evocativa nella dialettica tra un dentro prosciugato (uno spoglio, minimalista appartamento) e un fuori esasperato, (a dire il vero la versione  bislacca  e un po’ debole  di un  set/incrocio tra la strade perdute di Taxi Driver  e Cruising). C’è una sorta di intrinseco ritmo nel far cominciare l’isterica corsa di Beau dalla spinta propulsiva del corpo a corpo psicotico tra la paura come sentimento permanente e la sua rappresentazione come stato immanente. D’altronde, lo slittamento percettivo inquieta e spiazza, mantenendo sempre in campo il corpo in balia di Beau, quando si confronta con la sospensione e l’astrattezza di una surrealtà, anzi, parafrasando, di una sub-realtà (volendo aderire a questa sincretica estetica tra conscio e inconscio, nevrosi e archetipo a cui Aster da forma e senso). Significativa di questo progressivo processo di destabilizzazione è la sequenza notturna, per chi scrive la più riuscita, in cui Beau riceve continui messaggi di avvertimento sotto la porta da parte di un dematerializzato vicino che gli chiede di abbassare il volume di una musica che non ha mai acceso; un crescendo di toni in contrappunto al silenzio acustico e autistico nel quale versa il pavido protagonista sotto shock (che determinerà anche un più prosastico sfasamento  narrativo, lo scatenarsi e il concatenarsi di accadimenti sempre più deliranti). Dal momento in cui Beau esce letteralmente dalle quattro mura della sua abitazione-tana e si confronta con l’esterno (che è solo un più ampio recinto e palcoscenico della sua instabilità mentale), c’è una sorta di frattura tra aspettativa e risultato, un’interruzione nella tensione alimentata da quelle zone oscure del racconto che, una volta illuminate, perdono il loro mistero e risultano talvolta grevemente esplicative.

Il problema è che a una chiara messa a tema di questioni che riguardano il cinema di Aster, ovvero il conflitto insanabile  tra individuo e collettività, la famiglia come primo apparato di coercizione e repressione sociale, il materno castrante (o  meglio decapitante,  se si pensa ad Hereditary- le radici del male, suo esordio del 2017) dietro il quale si nascondono i tentacoli di un patriarcato mostruoso, non corrispondono immagini che, pur nella polimorfia di segni e risonanze , ne fanno sentire la profondità e la necessità. Tutto sembra un interminabile fuoco d’artificio che si consuma intorno alla figura sempre più cartoonesca e bidimensionale di Beau (interpretato da un Joaquin Phoenix, ridotto al grado zero di maschera ambulante, con gli urletti di terrore a sostituire le risate isteriche di Joker) e i rimandi non vanno molto più in là della superficie di una certa, pur pregevole, estetica da videoclip degli anni ’90: in effetti proprio Michel Gondry o Spike Jonze, che poi avrebbero travasato nel loro cinema degli anni 2000 quell’ onirico e celebrale surrealismo pop, sembrano i più ovvi interlocutori di Aster, in questo caso. La lunga, e a tratti suggestiva, sequenza di Beau che si perde  nella foresta e si ritrova ad assistere alla multipla rappresentazione della storia in flashfoward della sua vita, assomiglia al video di Bachelorette, diretto da Gondry per la cantautrice islandese Bjork (quasi dei piccoli film le immaginifiche e visionarie versioni audiovisive delle sue canzoni): la transizione da un paesaggio naturale e pulsionale ad uno culturale e sublimale (in Bachelorette Bjork è uno “spirito” del bosco che arriva in città e osserva la sua storia scriversi da sola sulle pagine bianche di un libro e rappresentarsi nel ripetitivo loop di una scena dentro l’altra) e la sensazione di straniamento e alienazione che ne viene (in Beau il nodo nevralgico resta la costruzione/perdita  di un’identità e di un immaginario nel disfarsi e ricomporsi dell’ordine familiare). Ma la compiutezza di questo blocco è disconnessa con  gli altri frammenti del rebus,  che incede accumulando situazioni, azioni, e scenari trascinati freneticamente fino al dunque di un brutale complesso edipico. Una scena madre dilatata e urlata, tra grotteschi coiti  interrotti da fatali espiazioni  e la messa in abisso di una pagana colpa originaria,  la separazione e il ricongiungimento nell’amniotica simbiosi della nascita. Un tourbillon dalla quale si esce frastornati prima ancora che terrorizzati o turbati.

E se si trasaliva per l’ espressione dopata di smarrimento ed esaltazione di Florence Pugh davanti all’ orgiastico rito di morte e rinascita sul panoramico schermo al calor bianco di Midsommar-il villaggio dei dannati, la rutilante odissea del protagonista può essere riassunta da una caustica e provocatoria battuta di Antonio Rezza (nel suo spettacolo Fratto X): la polizia uccide sparandoti, le madri partorendoti.

In sala dal 27 aprile 2023


Beau ha paura (Beau Is Afraid) – Regia e sceneggiatura: Ari Aster; fotografia: Pawel Pogorzelski; montaggio: Lucian Johnston; musica: The Haxan Cloak; interpreti: Joaquin Phoenix, Nathan Lane, Amy Ryan, Parker Posey, Patti LuPone, Denis Menochet, Zoe Lister-Jones, Armen Nahapetian, Stephen McKinley Henderson; produzione: A24, Access Industries, IPR.VC, Square Peg; origine: USA, 2023; durata: 197 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.

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