Cane che abbaia non morde di Bong Joon-ho

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Se i prodomi di una (presunta) poetica autoriale si vedono fin dall’opera prima, Cane che abbaia non morde, l’esordio di Bong Joon-ho, ormai acclamato cineasta coreano , rispetta a ritroso un simile presupposto: bisogna specificare infatti che si tratta di una visione in rewind, in quanto il film è stato realizzato nel 2000 ed esce solo ora nelle sale,e che nel frattempo è stato possibile vedere tutte le pellicole successive. E, per una sorta di circolarità, ci sono alcuni elementi che ritornano a partire proprio dalla fine, ovvero da Parasite , l’ultimo cimento di Joon-ho, il più celebrato da questa (Palma d’oro a Cannes) e dall’altra (Oscar come miglior film, per la prima volta in lingua non inglese) parte dell’Oceano; prima di tutto la centralità di una stratificata struttura sociale, “incementata”  prima che incarnata, tra le maglie architettoniche e urbanistiche di una città brulicante soggetti smarriti in un rigido classismo: se in Parasite si staglia ferina la famiglia sottoproletaria rappresentata nella fagocitante escalation fino alla cima della catena alimentare, in Cane che abbaia non morde prevale ancora l’individuo, alle prese con i medesimi istinti pervertiti . C’è infatti Ko Yun-ju, un giovane, aspirante docente universitario, ossessionato dal fare carriera per soddisfare le esigenze della punitiva e mortificante moglie incinta, che sfoga l’aggressività e la frustrazione represse attraverso la sadica pratica del rapimento e dell’ uccisione di cani di piccola taglia, appartenenti agli inquilini, anzi alle inquiline bambine o anziane, del labirintico condominio in cui vive.

Questo macabro rituale del quale viene apertamente messo in scena l’aspetto crudele e grottesco (e i titoli di testa ci tengono a precisare che i cani coinvolti durante le riprese hanno avuto tutte le tutele mediche…) mette in moto un tourbillon di azioni e reazioni in una contaminazione tra slapstick e black comedy (esattamente come avveniva con la prima bugia sulla propria identità perpetrata dai congiunti di Parasite ai danni dei ricchi borghesi da espropriare). Ma questa volta ad avere la meglio non è un calcolatissimo meccanismo, a tratti effettistico, di strategie, rivelazioni, colpi di scena (con una discutibile risoluzione, su un piano formale e di senso, del conflitto socio-antropologico tra sfruttati e sfruttatori) ma una sincopata, spiazzante andatura jazz, come jazz è la partitura musicale che accompagna  un’atmosfera di straniante tenerezza.

In realtà si tratta però di un contrappunto e non tanto di un accompagnamento perché alla base del ritmo da pochade c’è sempre il marciume e il fetore di un’ umanità in discesa infernale fino agli asfissianti locali caldaia di un anonimo palazzo, situato nelle fondamenta di indifferenziati  appartamenti-loculo:  dei non luoghi fantasmatici e di rimozione, come lo era la tana sotterranea della casa dispositivo di Parasite,   improvvisati tinelli per il guardiano dello stabile intento a preparare stufati di carne di cane (ricorrente nel cinema coreano e asiatico in generale è la presenza del cibo come tangibile e deperibile segno di degradante o sublimante eccesso); e sotto  le lastre di lamiera e cianfrusaglie si scopre l’esistenza di un povero sempre più povero.

Nel 2000 però Joon-ho non possedeva ancora una visione tanto radicalmente desolata e cinica, ed era ancora possibile il riscatto di un microcosmo di meschinità schiacciato tra le facciate di due edifici a specchio; un guizzo di etica che sussulta sul volto stralunato di Park Hyun-nam, piccola, graziosa e altruista bibliotecaria coinvolta suo malgrado in un gioco al  gatto col topo, una spirale di corse e rincorse (la sequenza migliore:  lei che fugge, in un’estetica da videogame live action, su e giù per balconi e pianerottoli, cercando di mettere in salvo un barboncino dallo spiedo di un affamato homeless). Ci si muove prevalentemente su una superficie, su una bidimensionalità che intrattiene e diverte, pur aprendo una visuale ,ancora piuttosto inedita all’epoca, soprattutto in occidente, sulla  caotica e conflittuale  convivenza delle comunità metropolitane coreane, declinate nei diversi livelli socio-economici di indigenza, frustrazione e disagio sociali . Un contesto qui solo abbozzato e ridotto al minimalismo di spenti interni casalinghi scanditi da piccole ripicche e ricatti, oppure attraversati dal mood un pò struggente dell’ indolenza e della solitudine. Non ci si fa male tra simili, cane non mangia cane -fuor di metafora- ma si annuncia che  certe tensioni stanno per esplodere in un clima da  horror/noir che Joon-ho riverserà nei successivi Memorie di un assassino  e Madre, dove le mostruosità assumeranno le sembianze più disparate (fino all’esplicita parafrasi da b movie del mostro per eccellenza dell’immaginario orientale, Godzilla, in The Host).

Certo alcuni limiti del suo cinema si avvertono, incluso un gusto talvolta gratuito per l’inquadratura sghemba (come a voler innestare, in maniera schematica più che ispirata, un filtro grottesco sulla percezione della realtà), e  un’approssimazione nel definire alcune dinamiche (l’amica della cartoleria presumibilmente innamorata di Park Hyun-nam); una generale impressione di affettazione e sciattezza, nonostante l’esplicita ambizione di trasfigurare il piccolo orrore quotidiano  in un dinamico iperrealismo.

D’altro canto il contenitore/contenimento dell’esordio ne limita la tendenza a un barocchismo forzato, come nell’ipertrofico finale di Parasite, con infinite giravolte e capovolgimenti di prospettiva. Non c’è neppure lo spazio per un deterministico, geometrico mélo di corpi senza lo spessore di una carnalità,  ma figure sul paesaggio in rovina di un mondo tra barbarie e modernità (o meglio, dove questi concetti si intersezionano senza soluzione di continuità, alla ricerca di una sintesi meno violenta). I due protagonisti di Cane che abbaia non morde,  titolo italiano assurdamente pertinente nel suggerire un’ ulteriore dimensione non sense, non possono vivere una svolta sentimentale, e questo a prescindere dal rifiuto delle convezioni narrative e a vantaggio dell’originario spirito rapsodico e destrutturato già contenuto nell’incipit; somigliano a dei manga che si muovono nella cornice di una striscia fumettistica e non si toccano tra di loro,  se non per acchiapparsi nel loop giocoso e adrenalinico di una burlesca caccia al ladro. 

E ognuno di loro, alla fine, prenderà una direzione diversa, più statica o più trasformativa, sicuramente nel solco di un’imprevedibilità ancora feconda,  di un movimento che non si esaurisce; tutto questo prima che Joon-ho cominciasse a preoccuparsi troppo di andare incontro alle aspettative di un pubblico adagiato sul derivativo orizzonte  immaginifico da formula o da algoritmo, perfette architetture narrative senza il respiro di una sorpresa o di uno stupore.

In sala dal 27 aprile 2023


Cane che abbaia non morde (Peullandaseu-ui gae); Regia: Bong Joon-ho; sceneggiatura: Bong Joon-ho, Sono Ji-ho, Derek Son Tae-woong; fotografia: Cho Yong-kyou; montaggio: Lee Eun-soo; musica: Jo Seong- woo; interpreti: Lee Sung-jae, Bae Doo-na, Kim Ho-Jung, Byun Hee-bong, Go Soo-he, Kim Roi-ha, Kim Jin-goo; produzione: Cha Seoung-jae per CJ Entertainment; origine: Corea del Sud, 2000; durata: 106 minuti; distribuzione: PFA Films, Emme Cinematografica.

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