Benedetta di Paul Verhoeven

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Affamata di una carnalità soave e spudorata, una fame originata e sublimata nel primigenio contatto con il seno di una statua mariana, arriva anche da noi la Benedetta di Paul Verhoeven, due anni dopo aver infiammato gli schermi di un Festival di Cannes ancora frastornato dagli effetti della pandemia. Se ne deve il merito a Movie Inspired per averne curato la pur tardiva uscita in sala, superando reticenze e resistenze, indici anche di una certa  mancanza di coraggio e libertà, di altre distribuzioni spaventate magari dalle implicazioni erotico-religiose del soggetto in questione, e dalle conseguenti, possibili ripercussioni di una censura silente ma ancora potenzialmente coercitiva (il film non ci risulta comunque tagliato o modificato  rispetto alla versione originale). La storia della protagonista si ispira infatti ad un saggio dall’eloquente titolo, Atti impuri – Vita di una monaca lesbica nell’Italia del rinascimento, della storica statunitense Judith C. Brown in cui si indaga sul mistero di Benedetta Carlini,  una mistica vissuta nel XVII secolo, affidata fin da bambina dalla ricca famiglia alle suore di un convento situato a Pescia, in Toscana. Ma per Verhoeven si tratta solo di un pretesto, nel senso letterale del termine, per continuare ad esplorare attraverso i suoi eyes wide shut la dimensione espansa ed esplosa di corpi immaginati e tangibili, sacri e profani, inviolabili e abusati.

Quello che potrebbe scadere nella facile provocazione, la storia di una bambina cresciuta nella magnifica ossessione di un desiderio oralmente agognato e, una volta diventata donna, consumato fino allo spasimo con una terrena e altrettanto famelica novizia, Bartolomea (Daphne Patakia) tra le mura di una cella monacale, trova la sua estasi e la sua misura in un mise en scène per contrappunto compiuta e rigorosa; la magistrale capacità del regista di spingersi fino alle coste di un paradosso Kitsch, senza smarrire mai la lucida follia di una visione/visionarietà che riflette sull’immaginario che la genera, ci conduce nella terra di mezzo tra il perturbante di un’eccedenza e lo straniamento di una rappresentazione. Perché la ragione dell’annunciato scandalo non ha tanto a che fare con le pur esplicite scene di erotismo che si auto ed etero inducono Benedetta e la sua protetta Bartolomea (con un uso improprio, tra l’altro, di un altro oggetto legato al culto incestuoso della Madre/Maria).

Con una radicale parafrasi ribaltata in chiave quasi pre femminista del fondamentale precetto cristiano secondo il quale la santità di Gesù non può  che celebrarsi ineluttabilmente nel martirio del sangue e della carne, Benedetta si fa venerato oracolo del trascendente nel vivere la pienezza dell’orgasmo. Un’esperienza/rivelazione che passa per la soglia uterina della sua corporeità e si trasfigura nella reiterata e rituale dimensione di un sogno/allucinazione; (pre)visioni di un Cristo ora salvifico cavaliere di pulsioni e passioni, ora spietato deus ex machina di possessioni tra misticismo ed isteria.

Come se fosse una precorritrice della Michèle/Huppert di Elle, che performava il trauma infantile di un padre serial killer nel ribaltare il gioco al massacro con il suo stupratore carnefice, questa lei (vibrante nella prosperosa e florida carnalità della sua interprete Virgine Efira) sovverte la struttura di una comunità di donne schiacciate da e complici di brutali dinamiche patriarcali di controllo e potere, emanazione dall’eterodiretta e totale istituzione ecclesiastica derivativa di una concezione ancora medioevale.

Da questo punto di vista, in un continuo oltrepassare soglie tra denudamenti privati e mascheramenti pubblici, è esemplificativa la figura della Madre Superiora, condotta  sul proscenio di un’ avidità senza scrupoli nell’ossessivo bisogno del gerarchico riconoscimento sociale. Nella secchezza austera e prosciugata di un physique du role a tutti i costi, ad interpretar è Charlotte Rampling, tutta concentrata nel focus di quegli occhi sadici e masochisti, prima che lo sguardo di ghiaccio si inclini fino a spezzarsi nella trasparente e sofferta testimonianza del contagio pestilenziale.

Un evento quest’ultimo che non si riduce all’iconografia cupa e plumbea di un mondo senza luce e senza speranza, ma che spinge i corpi, in egual misura consunti dalla promiscuità e dalla prossimità di sesso e malattia, sotto il sole di un Dio/ Satana liberato dal vincolo di una voce cavernosa e riportato su un piano di vitale anarchia e necessario antagonismo contro un mondo assoggettato dalla sottomissione feudale e dalla dipendenza clientelare. E sarà proprio il legame non vincolante di una (com)unione femminile nel duo Benedetta/ Bartolomea a riportare giustizia e verità: ribaltando la prospettiva del dito puntato contro di loro, indicheranno  non solo gli inganni e le mistificazioni del viscido nunzio apostolico, ma libereranno la badessa e con lei l’intero convento dall’afflizione di una piaga e di una stigmatizzazione, in un’epoca in cui il confine tra le definizioni di Santa e Strega era labile e manipolabile.

Senza dimenticarsi, nella messa a ferro e fuoco di tutti questi sensi e controsensi, della rutilante e entusiasmante resa su un piano spettacolare, Verhoeven realizza quello che è probabilmente il suo Narciso nero (fiammeggiante ed esasperato mélo del ’47 di Powell/Pressburger, nel quale alcune religiose erano dilaniante tra il dovere vocazionale e l’abbandono all’esotico e soffocante eros del paesaggio himalayano) ai tempi de L’amore e il sangue, altro titolo in cui il regista olandese si calava fino alle radici, anzi alle viscere, di una civiltà post medioevale e prerinascimentale, in una contro epica fatta di violenza, istinto  e lotta  (non c’è l’amore nel titolo originale, Flesh + Blood, ma già il plusvalore della carne appestata e desiderante).

Con un sottotesto che non rinuncia ad un ‘ironia introdotta dallo spirito dissacrante dell’autore, la Storia non viene ridotta a contemplativo ex-voto di un osservazione laica e materialista ma (tele)trasportata in un fantasmagorico flusso di forme nell’evocazione di un technicolor cosi lontano e cosi vicino. E così, negli abissi e nelle vertigini dei blu, dei rossi e degli ocra, Benedetta sembra dunque più vera del vero, e si staglia tridimensionale, nell’essenza effimera ed evanescente dell’immagine digitale, ad annunciare, nel corto circuito di un futuro prossimo e di un passato remoto, quanto possa essere rivoluzionaria e grandiosa la scelta di tornare alla vita dopo ogni piccola morte.

In sala dal 2 marzo


Benedetta; Regia: Paul Verhoeven; sceneggiatura: David Birke, Paul Verhoeven , dal saggio Atti impuri- Vita di una monaca lesbica nell’Italia del rinascimento di Judith C.Brown; fotografia: Jeanne Lapoirie; montaggio: Job ter Burg; musiche: Anne Dudley; interpreti: Virginie Efira, Charlotte Rampling, Daphne Patakia, Lambert Wilson, Olivier Rabourdin, Clotilde Courau; produzione: SBS Productions, Pathé, France 2 Cinema, France 3 Cinema, Topkapi Films, Belga Productions;  origine: Francia/Paesi Bassi,/Belgio, 2021; durata: 127 minuti; distribuzione: Movie Inspired.

 

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