BROS di Romeo Castellucci

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Un credo non deve essere spiegato. O meglio, lo si può spiegare, ma in realtà vive di ciò che in fondo spiegabile non è: il mistero. E attorno al mistero si dirama una nuvola di parabole, iconografie, regole, dogmi, testi, miti di nascita e miti di morte. BROS, ennesimo parto della mente di Romeo Castellucci, prende una figura che costella le nostre vite, il poliziotto, metonimia dell’Obbedienza totale, e costruisce un credo con i suoi feticci e cerimonie e sacrifici, puntando su una scenografia spettacolare, un soundtrack potente e un’ambientazione che prende lo spettatore per la gola e lo tiene sull’altolà. Alla fine si ha la sensazione di essere entrati in un mistero, artificiale certo, ma che nella realtà – e non solo in quelle persone che con berretto, pistola e manganello pattugliano le nostre strade – ha le sue radici. Forti, cieche e nere.

Un uomo anziano sale sul palcoscenico. È vestito di bianco, tiene un bastone tra le mani e parla un linguaggio sconosciuto nel quale vive disperazione, aspirazione, desiderio. Terminate le parole si spoglia e due poliziotti lo fanno sedere su un letto. È l’inizio di una cosmogonia, con i suoi motti a presentarla:

PRAETERITIS DICERE NON POTES QUID FACIENDUM SIT

Non puoi dire al passato cosa fare

Oppure

NESCIUNT QUID FACIANT? IMITANTUR

Non sanno che fare? Allora copiano

E il numero dei poliziotti aumenta sempre più. Prima sono due, poi quattro, poi decine, ognuno è in divisa scura, berretto, fondina con pistola e manganello, e ciascuno di loro agisce per qualcosa o contro qualcosa, mentre i loro corpi creano quadri o quadri li portano e sui quei quadri come sui loro corpi versano liquidi: sangue, latte, acqua. Sopra di loro le luci ciondolano, il mondo è sotterraneo. Più si sprofonda, più il linguaggio si fa criptico, ma l’oscurità, spaziale e di comprensione, non deve sorprendere. Dopotutto

PARS QUAE APPARET SINE PARTE QUAE NON APPARET NIHIL EST

Un lato che appare non è niente senza quello che non appare

Romeo Castellucci, regista di fama internazionale e ora Grand Invité alla Triennale di Milano, porta sul palcoscenico l’uomo d’ordine, nel senso di persona depersonalizzata dal proprio lavoro, pronto a eseguire i comandi senza domandarsi il motivo. Obbedienza totale. Del poliziotto certo, ma come potrebbe essere in tutti noi, civili. Lo fa allora prendendo non-attori, persone raccolte a caso dalla strada a cui viene chiesto di indossare una divisa, infilarsi un auricolare e fare tutto ciò che viene richiesto. A guidarli, un indice comportamentale stilato in più punti:

Sono disposto a diventare un poliziotto in questo spettacolo.

Sono disposto a credere di essere un vero poliziotto.

Sono disposto a eseguire tutti gli ordini per essere un vero poliziotto.

Eseguirò gli ordini anche se mi sembreranno risibili.

Risibili appunto, perché il lato comico c’è e non può essere altrimenti. Quello che noi vediamo sono uomini in divisa che non parlano, compiono soltanto azioni dal parvente valore sacrale, ma che all’atto pratico sono poliziotti che fanno gesti “strani” o perlomeno “curiosi”. Da film muto, alla Chaplin o alla Keaton. È quindi un attimo perché questo rituale messo in scena, nella sua estrema articolazione, cada nel comico e con sé trascini la persona, o meglio la non-persona, il poliziotto, e soprattutto quella obbedienza cieca che lo guida. Il valore religioso del dovere, e così quello dell’ordine, collassa, e noi vediamo un mito andare in pezzi.

BROS di Romeo Castellucci è uno spettacolo da vedersi. Perché inaspettato, perché cerebrale – a tratti forse troppo, ma il lato comico salva -, perché messo in scena con estrema cura. Un lavoro di corpi, scene e visioni non dirette alla sola spettacolarità, ma alla riflessione sulla spettacolarità: cosa stiamo vedendo? E quale è la vera chiave di lettura? Un gioco di luci e oscurità a suggestionare la fantasia dello spettatore, il movimento dei corpi, la pregnanza delle singole e corali azioni, azioni protratte o repentine, azioni di violenza e di dolcezza, il soundtrack disturbante o in ritirata, il tutto crea uno spettacolo pieno che non necessita di essere compreso in ogni suo passaggio, anzi, necessita a volte di non essere compreso. Richiede invece che lo spettatore si stupisca, e provi tanto timore quanto riso. Di ciò che vede sul palcoscenico, di ciò che vede attorno a sé. Di ciò che vede in sé. Obbedienza, assoluta. E quindi comica.

Dal 9 al 12 marzo al teatro Argentina, Roma.


BROS – concezione e regia: Romeo Castellucci; musica: Scott Gibbons; collaborazione alla drammaturgia: Piersandra Di Matteo; assistente alla regia: Silvano Voltolina; scrittura degli stendardi: Claudia Castellucci; interpreti: Valer Dellakeza e con gli agenti Luca Nava, Sergio Scarlatella, e con Giovanni Antonini, Filippo Braucci, Sandro Calabrese, Sergio Casini, Davide Cherstich, Nicola Ciaffoni, Marcello Di Giacomo, Stefano Donzelli, Gabriele Ferrara, Francesco Gentile, Damjan Gomisel, Pietro Lancello, Alessandro Mannini, Mauro Mercatali, Michele Petrosino, Lorenzo Picca, Danilo Rubcich, Nicolas Sacrez, Piergiorgio Maria Savarese, Fabio Sinnona, Carlo Suppressa, Andrea Vellotti, Vincenzo Vennarini, Luigi Vilotta e con il piccolo Filippo Fermini; direzione tecnica: Eugenio Resta; tecnico di palco: Andrei Benchea; tecnico luci: Andrea Sanson; tecnico del suono: Claudio Tortorici; responsabile costumi: Chiara Venturini; sculture di scena e automazioni: Plastikart studio; realizzazione costumi: Atélier Grazia Bagnaresi; traduzioni dal latino: Stefano Bartolini; direttrice di produzione: Benedetta Briglia; promozione e distribuzione: Gilda Biasini; produzione e tour: Giulia Colla; organizzazione: Caterina Soranzo; equipe tecnica in sede: Carmen Castellucci, Francesca Di Serio, Gionni Gardini; amministrazione: Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci; consulenza economica: Massimiliano Coli; foto: Jean Michel Blasco.

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