Cirano deve morire, e per favore, lo si ripeta – per favore –, un certo tipo di teatro faccia lo stesso. Leonardo Manzan è sufficientemente chiaro a riguardo. Il teatro merita di vivere finché ha un ruolo, e se non lo ha più, be’, che allora davvero muoia perché l’intellettualismo annoia e ciò che annoia trascina con sé il mezzo che lo esprime, il teatro appunto. Siamo nella provocazione. Il teatro di Manzan è insomma questo, acuta e forte provocazione che da una parte attacca e dall’altra non dimentica d’intrattenere: in questo caso il bersaglio è Cirano e l’intrattenimento è sulle spalle del personaggio e alle spalle del personaggio. Svelare l’impostura di Cirano. Ne esce un lavoro interessante e trasgressivo, nel quale i versi alessandrini francesi vengono dati in pasto al rap e ne guadagnano in forza, tanto quando parlano d’amore tanto quando è la vena più polemica del protagonista a pulsare. Perché è bene ricordarlo: Cirano non è solo uomo cantore d’amore, Cirano è prima di tutto
Un polemico! Cirano sei troppo polemico, troppo polemico!
E rischia di essere tanto fumo e poco arrosto. Fine a se stesso. Tuttavia, chiediamoci, e se lo chieda Manzan: Cirano è veramente l’unico che vive della sola polemica su quel palcoscenico?
La storia di Cirano è risaputa, la si riassuma allora in breve. Cirano è un guascone bravo nell’uso della spada, ancor più esperto in quello della parola. Ama Rossana, sua cugina, ma Rossana ama un altro, Cristano, e chiede a Cirano aiuto per proteggerlo. Cirano accoglie la richiesta per poi scoprire che Cristiano però l’uso della parola poetica non ce l’ha, zero al quoto, però oltre che romantico Cirano è anche guascone, da capo a piedi, e allora presta la sua favella a Tristano per conquistare la loro bella. Alla fine, tutti e tre rimangono a bocca asciutta: Cristiano muore, Cirano pure, Rossana rimane vergine. Voilà. E ora si arrivi al Cirano deve morire di Manzan
Lo spettacolo parte da Rossana, che ora vuole giustamente rivalsa. A giochi fatti, lei è vittima del teatrino messo in campo da Cirano, colui che ha infilato in bocca di un altro parole sue e tuttavia le uniche parole che contavano – un “ti amo” sincero detto a tête-à-tête – non è mai riuscito a dirle, in vita. Ma ora sono di nuovo qui, tutti e tre, redivivi per rispondere delle loro colpe e desideri, e tenuti a rimettere in scena la loro opera. L’inizio è davvero folgorante: Rossana chiama il pubblico al confronto, in una battaglia rap che possa mettere in difficoltà il guascone dalla battuta perennemente pronta, e Cirano coglie l’occasione: ne ha per tutti, per il teatro stesso, per il pubblico pagante, per gli attori (aspiranti o meno), per gli addetti ai lavori, per i critici, per coloro che non sono nessuno di tutto ciò, e sempre perché lui
Ce l’ha con il mondo, ha la luna storta!
E sembra lo faccia per posa, perché per poter vivere lui deve accusare e altro non può fare. Anzi, lo conferma
L’odio mi diletta, il dispiacere mi piace!
Ma le parole di Cirano non funzionano, non funzionano perché Rossana dice che
Io amo e l’uomo che amo è bello. Stupido, stupido ma bello!
E così il bello e stupido Cristiano, con tanto di auto-tune al seguito, fa la sua comparsa in scena. Lo scontro tra microfoni divampa.
Con lo spettacolo vincitore della Biennale Teatro di Venezia 2018, Manzan ci porta nella sua idea di teatro. Un teatro che è d’impatto e spettacolo; che non ha riserve nello scarnificare il palcoscenico stesso mettendo a nudo le quinte e creando un’arena di casse musicali intorno al podio; che osa nel mettere luci da concerto al posto di quelle da teatro e che queste luci le sa usare per creare una polifonia luminosa capace di ridare l’atmosfera di scontro rap come quello più intimo di riflessione del Cirano (bellissima scena) e così la scomparsa finale dello stesso. Perché Manzan – è necessario dirlo – lo spettacolo lo sa creare, spesso per contaminazione, e non si fa remore nel giocare con il pubblico, o sfidarlo, perché l’esibizione sia anzitutto immersiva e lo spettatore si sente in prima persona parte dello stesso. E funziona, non si può negarlo, a volte con genialità a volte con alcune esagerazioni fini a se stesse, però funziona e l’ora e mezza di spettacolo è nella sua totalità realmente godibile. È tuttavia necessario fare una riflessione su ciò che lo spettatore porta a casa, una volta usciti dal teatro.
Quello che Manzan affronta, e lo ha fatto anche con la sua opera successiva, Glory Wall, è il ruolo che il teatro può avere al giorno d’oggi. Un teatro che tanto spesso, nella sua storia come nella nostra attualità, rischia di perdersi in derive intellettuali che dimenticano l’obiettivo principale: intrattenere. Manzan parte proprio dalle mancanze del teatro per creare uno spettacolo provocatorio e impattante che realmente funziona ma che nell’agire di contropiede – ricercando quell’intrattenimento a fronte di un teatro spesso noioso – si concentra solo sulla reazione e dimentica la sostanza. E per sostanza s’intende quella parte legata ai personaggi, dietro cui si nascondono le persone, che è la parte emotiva nonché il cuore rovente del teatro, ciò che insomma lo spettatore si porta a casa, nel cuore, oltre ciò che si stampa sulle pupille per il tempo di un paio di ore.
Il risultato è che in Cirano deve morire si fa fatica a empatizzare con Cirano, con Cristiano, con la stessa Rossana che doveva essere il moto prima di rivalsa. E come non è sufficiente che oltre alle
Indelebili parole sui muri del suo rancore
Cirano scriva, IO AMO – perché quelle parole alla fine rimangono là, schizzate sui muri e null’altro – così non è sufficiente lo spettacolo di Manzan in termini di sostanza. Un ottimo spettacolo ad effetto, ma a casa si porta ben poco del lato emotivo. Un ottimo fumo, meno l’arrosto. Insomma, il messaggio dello spettacolo rimane soltanto sui muri del palcoscenico e stampato negli occhi, così come
L’amore [che] è inchiostro che macchia, e poi secca.
Spettacolo in scena dal 22 novembre al 4 dicembre al Teatro Vascello, Roma.
Cirano deve morire di Leonardo Manzan, Rocco Placidi; regia: Leonardo Manzan; musiche originali di Franco Visioli e Alessandro Levrero eseguite dal vivo da Filippo Lilli; fonico: Valerio Massi; luci: Simone De Angelis eseguite da Giuseppe Incurvati; scene: Giuseppe Stellato costumi Graziella Pepe; interpreti: Paola Giannini, Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini.