«Ho sempre amato Dalí, e sono abbastanza fortunato di aver potuto acquistare anni fa una sua opera firmata, autentica. Ciò che non sapevo di lui, che nessun libro poteva restituirmi, era l’effetto che faceva sugli altri, la luce che li attraeva e illuminava. E, nonostante le sue insicurezze, la sicurezza suprema di sé che comunicava. Sapeva nel profondo di essere Dalí. E gli altri lo sentivano. È una qualità che va al di là del carisma. In alcuni ambiti è pericolosa, ma nell’arte è un dono per l’umanità» (Ben Kingsley in una recente intervista al “Corriere della Sera”).
Bella l’idea quella di narrare la vita di un personaggio così eccentrico e geniale come Salvator Dalí (1904 – 1989) con i suoi inconfondibili baffi all’insù, uno dei massimi rappresentanti dell’arte del Novecento – un po’meno, qui, la sua realizzazione. Comunque ci ha provato la regista canadese Mary Harron, l’autrice del molto controverso American Psycho, (2000) che aveva debuttato nel 1996 raccontando in Ho sparato a Andy Warhol, la storia (vera) di una femminista radicale, Valerie Solanas, che aveva appunto cercato di uccidere il celebre artista statunitense.
Con l’aiuto della sceneggiatura del marito John Walsh, Harron in Daliland racconta gli ultimi anni, il viale del tramonto del grande pittore spagnolo alias sullo schermo Ben Kingsley, partendo dal 1974 quando aveva già settant’anni e si apprestava ad allestire una mostra a New York. Ad incrociare e raccontare la vicenda è l’occhio di James (Christopher Briney), il giovane ed entusiasta assistente del gallerista americano di Dalí Christoffe (Alexander Beyer) il quale, mandato a consegnare dal suo datore di lavoro una valigetta piena di denaro, presto entra nelle grazie dell’artista che lo denomina “San Sebastian”.
Nella frequentazione con il geniale ma ormai un po’ senile pittore, il ragazzo impara a scoprire anche i lati oscuri, le fragilità dell’uomo, il suo rapporto ossessionato con la sessualità, entrando a sperimentare la vita eccentrica che conduce all’Hotel St. Regis di New York, e partecipando a party sfrenati con invitati illustri come l’androgina Amanda Lear (Andreja Pejić), occasioni in cui avverte il grande vuoto e la tristezza che porta dentro di sé. La paura di invecchiare, il calo della creatività, la necessità di produrre per mantenere la sua esistenza dispendiosa come poche, è soprattutto alimentata dai comportamenti sregolati della moglie Gala (una eccellente Barbara Sukowa), con la quale i rapporti vanno deteriorandosi sempre di più. Dalí aveva incontrato la donna nel lontano 1929 a Parigi alla presentazione di Un chien andalou, il primo capolavoro del cinema surrealista, girato a quattro mani insieme a Luis Buñuel con cui l’anno dopo realizzerà ancora L’age d’or (1930). Modella avvenente, artista lei stessa e mercante d’arte, la russa Gala, nata Elena Dmitrievna D’jakonova, era sposata con il poeta francese Paul Eluard, che poi aveva lasciato dopo quell’incontro fatale. Un tempo grande musa di Dalí e tutt’ora l’amore della sua vita, la donna è, però, diventata avida e dispotica, circondandosi di giovani amanti e protégé come un musicista mezzo fallito, sotto gli occhi del marito. Eccetera, eccetera, sino alla conclusione della storia nel 1989.

Biopic un po’ folcloristico e fantasioso sul mondo artistico tra gli anni Settanta e Ottanta, ambientato tra New York e la Spagna (ma girato, in realtà, durante la pandemia in gran parte all’Adelphi Hotel di Liverpool), il film di Mary Harron per noi trova i suoi momenti migliori e più toccanti nel descrivere il tramonto dell’uomo con i suoi problemi e il suo rapporto d’amore con Gala. Qui si esalta – ma non è certo una novità – la bravura e la gran classe attoriale di Ben Kingsley, aduso per altro a intrepretare con empatia personaggi storici tanto diversi, per esempio Gandhi nell’omonima opera (1982) di Richard Attenborough – che gli valse l’Oscar per la miglior interpretazione maschile – oppure Georges Méliès in Hugo Cabret (2011) di Martin Scorsese, dove per altro si vede una scena di Salvador Dalí che mostra un suo disegno allo scrittore James Joyce. Ma se Kingsley è una certezza, una menzione particolare di merito va a Barbara Sukowa, tornata dai tempi di protagonista del Nuovo Cinema Tedesco con Rainer Werner Fassbinder e Margarethe von Trotta, a un ruolo dove si mostra tutta la sua bravura. Solo per queste due interpretazioni vale la pena di vedere Dalíland, oltre che per seguire raccontato un grande del Novecento.

Ps.: per coincidenza, è stata presentata in questi giorni, sulla Croisette nella sezione “Cannes Classics” la versione restaurata in 4K di di Spellbound (Io ti salverò, 1945) per la regia di Alfred Hitchcock con Ingrid Bergman, Gregory Peck, film meraviglioso che compie 78 anni di età. In essa è presente com’è noto la celeberrima sequenza del sogno di Ballantyne disegnata da Salvador Dalì. Quello sì cinema con la C maiuscola!
In sala dal 25 maggio
Dalíland – Regia: Mary Harron; sceneggiatura: John Walsh; fotografia: Marcel Zyskind; montaggio: Alex Mackie; musiche: Edmund Butt; interpreti: Ben Kingsley, Barbara Sukowa, Ezra Miller, Christopher Briney, Rupert Graves, Andreja Pejic, Alexander Beyer, Mark McKenna; produzione: Zephyr Films, Pressman Film, Room 9 Entertainment, Neon Productions, Popcorn Group, Serein Productions; origine: USA, 2022; durata: 104 minuti; distribuzione: Plaion Pictures.