Un cielo nero illuminato dal fuoco del canto di uno sciamano il cui volto si staglia in primo piano. Ora i canti si sentono in lontananza, una giovane è in procinto di partorire, poi una freccia è puntata su un bue colpevole d’aver varcato la zona sacra. Stacco ai giorni nostri dove una donna indigena guarda sullo smartphone il comizio di una militante. I primi minuti di The Buriti Flower ci immergono già in un fluido flusso di sguardi e temporalità differenti dove riti ancestrali e sogni di persistenza incontrano la civiltà moderna e incubi d’irruzione.
Presto però il flusso viene direzionato verso i nostri giorni e gli sguardi solidificati: la giovane Jotàt, sua madre Patpro e suo nonno, lo sciamano Hỳjnõ, sono abitanti di una comunità Krahô, un popolo indigeno brasiliano della foresta amazzonica minacciato da quasi un secolo dai cupē, dall’uomo civilizzato. Una minaccia che torna nel sonno di Jotàt sotto forma di sogno, o racconto mitico, dove ricompaiono i corpi, oggi fantasmi, massacrati dalle periodiche invasioni dei bianchi. Il re-enactment, però, a differenza dell’etno-fiction di Jean Rouch, non ha un valore rituale di per sé, ma serve piuttosto a legittimare le attuali rivendicazioni identitarie.
Alla contemplativa immersione nella cultura indigena, oggi particolarmente ibridata con il mondo tecnologico, e alla fluidificazione di tempi e corpi, i registi (il portoghese João Salaviza e la brasiliana Renée Nader Messora, anche direttrice della fotografia) rispondono riempiendo con il dialogo e con fin troppo semplici soluzioni retoriche le lacune dello spettatore verso il mondo rappresentato. Quelli che potevano essere spazi immaginativi diventano così momenti espositivi e didattici. Anche solo la rievocazione del massacro storico viene raccontata attraverso le parole dello sciamano e l’identificazione con un bambino impaurito.
Nella parte finale si compie la trasformazione del film da etnografia a pura militanza (se non propaganda) con il viaggio di Patpro verso Brasilia e l’incontro delle istanze indigene con il movimento anti-Bolsonaro. Emblema della comune battaglia è Sonia Guajajara, oggi ministra dei popoli indigeni del Brasile, i cui comizi ben rappresentano lo spirito neo-sciamanico dell’attivismo indigeno. In questo senso il film ben rappresenta la nuova soggettività politica indigena ibridata con il mondo contemporaneo e le sue modalità d’attivismo. Peccato sfoci nella celebrazione spudorata.
Vincitore del Concorso internazionale a Firenze, dopo esser già passato a Un Certain Regard a Cannes, la tragica vicenda di occupazione e invasione ha chiaramente colpito un pubblico affetto dalla situazione mediorientale, ma ha anche forse distratto da ingenuità stilistiche e modalità espositive al limite della propaganda. Malgrado il contributo alla scrittura di tre persone Krahô, verrebbe quasi da questionare quanto effettivamente questo sguardo sia rappresentativo del loro popolo e non piuttosto un compromesso politico con le istanze attiviste attuali.
The Buriti Flower – Regia: João Salaviza, Renée Nader Messora; sceneggiatura: João Salaviza, Renée Nader Messora, Ilda Patpro Krahô, Francisco Hyjnõ Krahô, Henrique Ihjãc Krahô; fotografia: Renée Nader Messora; montaggio: Edgar Feldman, João Salaviza, Renée Nader Messora; musica: Pablo Lamar; scenografia: Ángeles García Frinchaboy, Ilda Patpro Krahô; interpreti: Ilda Patpro Krahô, Francisco Hỳjnõ Krahô, Solane Tehtikwỳj Krahô, Raene Kôtô Krahô, Débora Sodré, Luzia Cruwakwỳj Krahô; produzione: João Salaviza e Renée Nader Messora per Karõ Filmes, Ricardo Alves Jr. e Julia Alves per Entre Filmes; origine: Brazil/Portugal, 2023; durata: 125 minuti.