Dopo aver annunciato, forse per provocazione, uno sconfortato abbandono della regia cinematografica con il pretesto degli scarsi o quasi nulli incassi dei suoi film, l’ex enfant prodige canadese Xavier Dolan si confronta, sempre nella sua totalizzante dimensione autoriale (creatore, regista, sceneggiatore ed interprete) con l’altro medium audiovisivo, la serialità. Presentato in anteprima italiana all’appena concluso “Florence Queer Festival” (18-22 ottobre 2023), dove sono state proiettate le prima due delle cinque puntate realizzate, The Night Logan Woke Up (in originale: La nuit ou Laurier Gaudreault se’est rèveillè ) contiene alcune questioni ricorrenti di una sua molto riconoscibile poetica, seppur espanse su una durata ancora più estesa dei già dilatati tempi dei lungometraggi: in primis, la rappresentazione, attraverso il proprio sguardo immersivo e il suo stesso corpo attoriale, di una famiglia disfunzionale con al vertice un matriarcato castrante, possessivo e dominante (a incarnalo è sempre il volto maschera superbo e implacabile di Anne Dorval, la sua Mommy feticcio); e poi, a caduta libera, le pulsioni represse e sotterranee della linda e patinata media e piccola borghesia di un Quebec provinciale e marginale (nel sentirsi anche provincia della parte anglofona del Canada), e una certa attrazione larmoyant per gli amori mèlo, attraversati con il coraggio e la veemenza di un quasi ossessivo corpo a cuore e s-velati nell’abissale oscurità sotto la pelle lacerata e sanguinante.
Nell’occhio di un simile, tumultuoso ciclone di desideri e aspirazioni in vortice/vertigine c’è la famiglia Larouche, ieri e oggi : una madre morente che ha intorno a sé i tre figli maschi (l’impulsivo e tormentato Julien, il riflessivo e affidabile Denis, il fragile e distruttivo Elliot) e lontana, forse cacciata o forse fuggita, l’unica figlia femmina, Mirielle. Proprio dal ritorno a casa di quest’ultima, topos del racconto famigliare sul quale Dolan ha costruito una delle sue opere più toccanti, È solo la fine del mondo (2016, in cui un giovane uomo malato terminale dopo un lungo silenzio tornava a casa per annunciare la propria dipartita ai suoi congiunti) si attiva la memoria del trauma, messa da parte da un meccanismo di rimozione che ha generato in ognuno forme di nevrotica sopravvivenza. Mirielle infatti ha subito circa vent’anni prima uno stupro da parte del Logan/Laurier del titolo, il figlio dei vicini di casa dei Larouche, nonché inseparabile compagno di confidenze e aspirazioni della ragazza e di Julien, il più grande dei fratelli. Seguendo il filo di una necessaria progressione, in queste prime due parti Dolan predilige un’evocazione degli avvenimenti, invece che una più pedante e didascalica esposizione dei fatti, mentre il nucleo è contenuto nella messa in scena di un noir psicologico dove non conta tanto ciò che è accaduto quanto la sua manifestazione nel passato e la conseguenze nel presente. L’atmosfera è densa e opprimente, con un senso di colpa, vergogna, rimpianto che permea l’incrocio di sguardi, abbracci, colluttazioni e respingimenti tra i fratelli, una volta morta la madre che, per sua volontà, lascia la disposizione di voler essere preparata per la sepoltura proprio da Mirielle (che è diventata una distaccata, pacata e precisa patologa). Già in questa scelta c’è la precisa necessità di ridefinire i confini di un (rin)negato rapporto madre-figlia nell’atto bigger than life di ritrovarne e ricostruirne, letteralmente, le sembianze. Un passaggio sintetizzato nell’immagine così fisica e vibrante della ragazza che apre una ad una le dita della mani della propria madre defunta rimaste serrate; un dettaglio, anche di inquadratura, sul quale si avverte il suono di qualcosa che si è fratturato e richiede una ricomposizione a distanza ravvicinata.
Dolan ci mette così subito al corrente della maniera forte, diretta, impattante che userà per raccontare una storia compromessa da una ferita narcisistica al quadrato; tutti i personaggi sono infatti legati dal doppio filo di un legame di sangue e di un sostanziale individualismo che impedisce loro di vedersi, ascoltarsi e comprendersi; la pietas è spazzata via da una rabbia, ora controllata e sublimata dall’occasionale sesso masochista di Mirielle, sepolta e nascosta dal disordine domestico ed esistenziale dell’apparentemente assennato Denis, esplosa nei flash di ricordi allucinati dentro gli occhi spiritati di Julien. Anche se Dolan lascia per sé stesso il ruolo emotivamente e fisicamente più estremo, il fratello borderline sul quale sono crollate le aspettative del riscatto della madre e che si impone, con il carnale tarlo di una coscienza incapace di darsi pace, attraverso l’autolesionismo di lividi, sgraffi e tagli procurati dallo spaccarsi il bel visino, sul quale il vero Xavier ha costruito anche l’immagine glamour di testimonial per brand di lusso, contro lo specchio oscuro di una doppia morale scissa tra forma e sostanza. Di questo non si parla, come recitava il titolo di un vecchio bel film di Maria Luisa Bemberg (con un’altra madre, stavolta dell’alta borghesia sudamericana, che nascondeva la figlia affetta da nanismo agli occhi del mondo in un artificiale paradiso casalingo di cultura ed eleganza) e, nel caso se ne voglia parlare, viene messo a tacere con la violenza manipolatoria del ribaltamento e della negazione delle contraddizioni.
L’artificiale paradiso casalingo in questo caso è racchiuso dal regista demiurgo nella disturbante scena di una cena natalizia catalizzatrice involontaria dell’insofferenza di Mirielle e del decisionismo passivo aggressivo dei suoi genitori (che, dopo la violenza subita dalla ragazza, incolpandola indirettamente dell’accaduto per la sua tendenza di intrufolarsi di notte nelle case del vicinato, la vorrebbero spedire in un collegio); l’inesorabile destituirsi dell’onnipresente colore rosso da edificante e rassicurante espressione del focolare a macchia incandescente di una brutalità opprimente, manesca, mortifera. Eppure non si rinuncia alla languida, reiterata messa in scena di lunghe sequenze con interazioni extra diegetiche di canzoni del repertorio pop/rock , altro segno caratterizzante in Dolan, con i brani selezionati come se fossero personali compilation di un particolare stato emotivo e psicologico dei suoi protagonisti. Qui c’è ad esempio una struggente versione integrale del brano Quand vous mourrez des nos amours interpretata da Rufus Wainwright sulla sequenza del funerale della madre e sul dolore solitario e non condivisibile di ciascun fratello. Pur permettendosi queste concessioni agli eccessi sentimentali che gli appartengono e sommano il gusto alto per il milieu da sinfonia operettistica a quello più nazional popolare per l’enfasi da soap opera, rimane però il residuo di una preoccupazione da sceneggiato televisivo, da rivelazione a fine puntata, da to be continued… che dimostrano quanto meno la capacità di stare nel solco di un progetto definito, di non snaturarne completamente la modalità di fruizione .
Più vicino alla serie (2013) di Jane Campion Top of the lake – Il mistero del lago (che comunque possedeva da subito delle derive e delle sospensioni onirico/visionarie qui più limitate) e non alla stratificazione tra subconscio ed extra sensorialità del Lynch di Twin Peaks, tanto per citare l’eccellenza della serialità, The Night Logan Woke Up è un’altra prospettiva sulla tarda giovinezza di Xavier Dolan. Un autore che si conferma tale proprio nel riproporre, variandola, l’archetipica felliniana carrellata di volti di una stessa commedia, o meglio, del suo rovescio, il (melo) dramma dell’arte e della vita.
The Night Logan Woke Up (La nuit où Laurier Gaudreault s’est réveillé)– Regia, sceneggiatura e montaggio: Xavier Dolan basato sull’omonima commedia teatrale di Michel Marc Bouchard; fotografia: André Turpin; musica: Hans Zimmer e David Fleming; interpreti : Julie Le Breton, Anne Dorval, Éric Bruneau, Xavier Dolan, Patrick Hivon, Jasmine Lemee, Pier-Gabriel Lajoie; produzione: Canal +, VVS Films, Québercor, Productions Nanoby; durata: 5 episodi da 53 a 65 minuti; origine: Canada 2022.