Da Cannes 2021: Futura

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“La révolution n’est pas un dîner” si diceva nella Chinoise (1967)  Jean-Luc Godard. E se invece lo fosse? Futura, il nuovo documentario firmato dal trittico d’autore Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher ci trasporta oltre le Colonne d’Ercole del presente, là dove non esiste più nulla.

È la fine del mondo: la cinepresa si aggira per un’Italia pre- e post-pandemica, fra le radici di un non-luogo in cui solitudine e smarrimento regnano sovrani. I protagonisti della pellicola sono i ragazzi nati sulle spalle del mostruoso e imponente Novecento, sorta di fiacco Polifemo rintanatosi nella propria grotta. I giganti di un tempo – la guerra, l’eterno conflitto generazionale fra genitori e figli, i fuochi del ’68 e quelli che sono venuti dopo – attendono impazienti un colpo di grazia che non arriva mai. Nel frattempo, Ulisse e i suoi compagni veleggiano in mare senza riuscire a toccare terra, ma sognando ostinatamente di essere calciatori, medici, cuochi o artisti.  L’obiettivo vagabonda da nord a sud raccogliendo volti con la precisione maniacale di un chirurgo e la scettica convivialità di un fotoreporter. La realtà che si schiude sullo schermo è a dir poco inquietante, abbiamo l’impressione di osservare un vecchio edificio fatiscente dal quale la gente vorrebbe (ma non può) fuggire. Così, ad accompagnare l’usuale irrequietezza giovanile è un senso di oppressione e di abbandono che finisce per ammorbare perfino l’occhio dello spettatore più “adulto” (per quanto il termine, alla fine della proiezione, ci risulti quasi grottesco).

I primi minuti basterebbero a connotare l’intera pellicola – al torpore generale non c’è inizio e non c’è fine, l’era del romanzo di formazione pare ormai un lontano ricordo. I registi vorrebbero tracciare un quadro di genere a trecentosessanta gradi, ma il loro dipinto non possiede davvero tutte le sfumature di cui vorrebbe appropriarsi. Si parte dal microcosmo magico-agricolo tanto caro alla Rohrwacher per poi approdare all’ombra della metropoli, volando da Milano a Roma e da Roma a Genova – eppure il paesaggio rimane sempre fedele a sé stesso. Gli adolescenti ripetono un mantra tristemente noto e l’intero lungometraggio si risolve in una sconfortante sinfonia della desolazione. La struttura dell’opera non prevede fughe, ma si muove sulla linearità di un Adagissimo tanto limpido quanto ridondante. In breve: non c’è lavoro, non c’è speranza, non c’è domani. Ci si sente prigionieri in una sorta di casa degli Usher universale. Le parole utilizzate dai ragazzi sono semplici, spontanee, i concetti un po’ meno. Il fatto che ogni affermazione appaia scontata e possieda un retrogusto già assaporato dovrebbe quantomeno far scattare il proverbiale campanello d’allarme.

Nonostante la buona volontà dei registi, l’inchiesta rimane in superficie, limitandosi ad abbozzare un piccolo identikit del futuro. Il risultato è un bel disegno privo di ombreggiature, un po’ come il terzo millennio. Per i nostri moderni argonauti cinematografici, l’avvenire è solo una minacciosa cinta di nebbia che si dissolve nel vuoto, ogni tentativo di rischiarare l’orizzonte appare stanco e frustrato in partenza. Questa non è una gioventù bruciata, ma una gioventù mai nata – e un motivo ci sarà. I protagonisti non sembrano nemmeno figli dei propri genitori, ma si perdono nell’individualismo virtuale che caratterizza una storia senza storia. Le fila dei loro pensieri sono tirate da una logica stranamente contorta e dissonante, il loro idioma è una specie di miscuglio fra il gergo dei perdenti e la magniloquente lezione di vita secondo la quale ognuno, nella giungla dell’oggi, deve pensare per sé. L’intero film ruota attorno all’assenza – non della ribellione, ma di una consapevolezza comune che permetta alla ribellione di insorgere.

L’aspetto più inquietante della surreale Odissea è la prematura spossatezza che si dipana dalle interviste, come se nessuno fosse mai stato ragazzo, come se l’ordinario e il quotidiano appartenessero ad entità molto lontane e molto astratte. Nelle dichiarazioni non c’è traccia di rabbia, ad aleggiare sul palcoscenico è solo un grande imbarazzo, probabilmente frutto di una malsana ma necessaria abitudine al disincanto precoce. In poche parole, non si sa con chi prendersela.

La pellicola non accusa, ma accenna, non spiega, ma procede per intuizioni e punta i riflettori sulla semplicità ferina della testimonianza spuria, priva di fronzoli cinematografici e/o pamphlettistici. La cinepresa si fa cassa di risonanza, diventando lei stessa parte di un futuro uggioso e incerto. Gli adolescenti esibiscono uno strano e ingenuo cinismo che in qualche modo stride con la loro età, ovunque domina il terrore dell’ipotesi e del carpe diem. La confusa apatia degli intervistati non può essere congenita: qualcuno deve avere insegnato loro a osservare il mondo come “un insieme di elementi finiti” – chissà, forse questo qualcuno è un ex primo della classe, o forse è proprio la cinese di Godard.

Passato al Festival di Cannes nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs


Cast & Credits

Futura ; –Regia: Pietro Marcello, Francesco Munzi, Alice Rohrwacher; sceneggiatura: Stefano Laffi; fotografia: Ilyà Sapeha; montaggio: Aline Hervé; produzione: Avventurosa con Rai Cinema; origine: Italia 2021; durata: 105’.

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