Si dice che la più grande paura di un astronauta sia quella di perdersi nello Spazio, fluttuare senza freni nell’oscurità più profonda. Cambia lo Spazio, perde la lettera maiuscola, ma la paura dell’astronauta rimane la stessa: smarrirsi nello spazio, quello delle banlieue. Anche lì per sopravvivere c’è bisogno di qualcosa, per esempio di un’astronave. E l’immaginazione disperata del naufrago.
Gagarine, per la regia di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh, ritorna nella periferia parigina. Non è un viaggio isolato (I miserabili, 2019) e lo si percorre in modo efficace, puntando sull’audacia romantica di chi osa non tanto andare dove nessuno è mai stato, bensì rimanere dove nessuno più vuole stare. Il mito dell’ultimo pioniere, l’astronauta, è fatto terreno. Il prezzo da pagare per la metafora si presenta – una forzatura alla credibilità sul finale – ma è in parte compensato, e si perdona, per vari dolci istanti di poesia giocati sul binomio Cielo e Città. Andare verso l’ignoto, dopotutto, non mai privo di rischi, neppure diegetici.
Gagarin è stato il primo cosmonauta della storia, e Gagarine è stato un complesso residenziale nella Parigi esiliata. I due, uomo ed edificio, appartengono ormai a un’altra epoca ed entrambi hanno il loro Youri (Alseni Bathily), nome per il primo, abitante per il secondo. Quest’ultimo è un ragazzo con gli occhi puntati verso l’alto come verso l’intorno, occhio nel telescopio osserva la varie facce, quella della luna e quella dei suoi vicini, e in entrambi trova il riflesso di una Terra che di loro ben poco se ne cura.
Ma Gagarine è casa, Gagarine è da salvare. Insieme all’amico di una vita (Jamil McCraven) e a una nuova conoscenza, una ragazza rom (Lyna Khoudri), altri relitti della società, cerca di salvare il possibile: ascensori rotti, luci spente, invasione di topi, soffitti che crollano. La buona volontà non è sufficiente, ci vogliono anche gioielli, quelli sonanti, della madre, ma già si è giunti al limite del vivibile: Gagarine è inagibile, deve essere abbattuta. Non è più un pianeta abitabile.
È a questo punto che si richiede all’astronauta fantasia creativa e di sopravvivenza. L’ultimo uomo su Marte diventa l’ultimo uomo di Gagarine, e laddove tutto scompare – condòmini sfrattati e appartamenti smantellati – si cerca un rifugio. L’astronauta lavora, costruisce con materiali di scarto la propria astronave con tutto il necessario – serre, cibo sottovuoto, parabole, illuminazioni, celle isolate – e Spazio e Terra cercano un punto di contatto: le avventure all’esterno dell’edificio divengono camminate nell’ignoto, dagli oblò si scorge un mondo che muta e gli alieni sono sempre più vicini. Bussano alle porte, chiudono passaggi, catturano gli ultimi compagni. L’oscurità si fa ormai più stretta, Youri sempre più solo. Le cariche vengono piazzate tra i pilastri dell’edificio e gli incubi del ragazzo. È tempo di tentare l’impossibile, è tempo di lanciare l’ultimo SOS. Poi sarà buio, o forse luce.
Fanny Liatard e Jérémy Trouilh s’inseriscono all’interno di un filone che ormai in Francia è genere, quello del racconto delle banlieue, nelle quali l’immigrazione avvicina pianeti differenti incastrandoli a forza in uno solo. Parigi è lontana, la nuova Francia tanto vicina. Non abbiamo più persone avvolte nei ricordi della patria d’origine, abbiamo invece ragazzi che hanno nuova patria, i sobborghi stessi, e rivendicano il loro diritto a continuare a viverci.
I registi scelgono un filtro, originale quanto sfumato, che non è solo accostamento di luoghi – Terra e Spazio – ma significativa sovrapposizione di lenti: la modalità di ripresa spaziale – quella lenta a rovistare i crateri lunari secondo lo sguardo dell’astronauta – non ha per obbiettivo i corpi celesti ma i corpi umani e il comune si tramuta in straordinario per lo sguardo distorto che lo esamina attentamente. Si perlustra il degrado, alla perenne ricerca dell’umano.
È poi un gioco di tonalità. I colori hanno il calore del cemento vecchio, con l’andare della storia il paesaggio cittadino si fa lunare e nei corridoi dove un tempo rimbalzavano le voci umane ora si susseguono squittii di topi e gemiti di calcinacci. Ma al deserto lunare che avanza fa contrasto la solennità dell’uomo che vi si oppone: luci forti e tese, rosso giallo blu, riempiono stanze e figure che avanzano in questo Spazio sconosciuto che è la Francia del domani. Tra il nulla spaziale e l’avanzare del cosmonauta c’è poi la sospensione. Nella sospensione ci sono le persone, piccoli uomini e donne che il mondo rifiuta di far entrare nell’adultità, respinti a calci pugni cariche esplosive gru. Loro, in risposta, devono adattare il respiro all’atmosfera rarefatta del presente in debito d’ossigeno, le orecchie al suono pieno crepitante carico che li circonda e il linguaggio di ognuno a un linguaggio altro, universale. Abbandonare le parole e rifarsi alla dolcezza precisa dell’alfabeto morse.
Passato in concorso a Cannes 2020, Gagarine è un film romantico di quel romanticismo che appartiene alla gioventù, né scontato né bilanciato, ed è bello per questo. In alcuni punti difetta di scorrevolezza, sul finale richiede allo spettatore una sospensione dell’incredulità e una pazienza che sono certo accettabili se si ha abbracciato appieno quell’atmosfera rarefatta e sotto vuoto che è la chiave dell’intero film. Non è solo questione di metafore, almeno, non solo metafore di sostanza ma pure di visione, e quando l’occhio si abitua si inizia a vedere, soffrire, comprendere il disagio del protagonista. Allora, ci si renderà conto che la mdp può essere nostalgica dello spazio ma il mondo è il nostro, pianeta Terra, cratere Occidente, e che dopotutto abbiamo davanti il vero astronauta del ventunesimo secolo, quello che si spinge laggiù, oltre le stelle, nelle periferie (celesti). Questi astronauti hanno un nome, sono i giovani.
Insomma, «Houston, abbiamo un problema».
In sala dal 19 maggio
Gagarine – Proteggi ciò che ami (Gagarine) – Regia: Fanny Liatard, Jérémy Trouilh; sceneggiatura: Fanny Liatard, Jérémy Trouilh, Benjamin Charbit; fotografia: Victor Seguin; montaggio: Daniel Darmon; scenografia: Marion Burger; musica: Amine Bouhafa, Evgueni Galperine, Sacha Galperine; interpreti: Lyna Khoudri, Alseni Bathily, Jamil McCraven, Finnegan Oldfield, Farida Rahouadj, Denis Lavant; produzione: Haut et Court, France 3 Cinéma; origine: Francia, 2020; durata: 95’; distribuzione: Officine UBU.