“Sento che a questo personaggio manca qualcosa …” “e cosa sarebbe ?” “La speranza” : in questo spezzone di dialogo tra Myrtle Gordon, grande star del teatro all’imbocco del viale del tramonto, e Sarah Goode, commediografa matura che ha scritto un testo sulla crisi esistenziale di una donna di mezza età, è contenuto uno dei passaggi più significativi de La sera della prima di John Cassavetes, opera capitale sul rapporto quanto mai intimo e inestricabile tra il tempo della vita e quello dell’arte che ne diventa riflesso, doppio, proiezione.
Non a caso è questo il film che la scrittrice Emile Ducret, durante un convegno, sceglie come rappresentativo di un personaggio femminile in relazione con la scrittura ne Gli amori di Anaïs, opera prima di Charline Bourgeois-Tacquet, presentata lo scorso anno alla “Semaine de la Critique” del Festival di Cannes. E in questo gioco di specchi , c’è anche un rimando dichiarato a un modo di sentire e raccontare un argomento affine, seppure da una prospettiva differente: in Cassavetes la centralità dello sguardo e del movimento era affidata al personaggio della donna matura, incarnato con trasporto, ironia e audacia da una Gena Rowlands sempre più “larger than life”, nell’incontro/scontro con una devota, giovanissima fan che diventerà la sua nemesi/ossessione; qui entra in scena da subito, fin dalla prima inquadratura, la giovane, fresca, spontanea Anaïs (Anaïs Demoustier) del titolo; sta correndo con un vestito primaverile e un mazzo di fiori in mano, e sembra appena uscita da un qualche rohmeriano racconto delle quattro stagioni,oppure è come se fosse l’incarnazione dello spirito profondo e leggiadro che ispirava la serie “Commedie e proverbi”, diciamo un mix tra la sbarazzina Pauline alla spiaggia e l’emancipata, libera Pascale Ogier de Le notti della luna piena.
In questo inizio dove Anaïs è tutta parole e fisicità non c’è il tempo dell’introspezione e dello struggimento oppure della progettualità e della scoperta di sé, non si disfa e non si costruisce nulla, tutto è solo nel presente, ridotto a attimo, impulso, istinto. Perfino l’aborto che affronta e la malattia della madre sono risucchiati da questo bisogno di vivere ostinato quanto evanescente e narcisistico, e non ci sono principi, quelli che la protagonista ammette di non avere, perché tutto è soggetto a manipolazione e omissione.
Lo sguardo della regista è però affettuoso e indulgente nei confronti della sua scapestrata e saltellante Anaïs, risparmiata dal moralismo e dalla falsa coscienza della borghesia intellettuale dove accende il suo valzer di flirt e di infatuazioni, in particolare con il personaggio pavido e impotente di Daniel (Denis Podalydès), l’ editore marito di Emile, con il quale ha un pallido, insipido menage, prima di lasciarsi sedurre anche solo da una foto di spalle e dal sapore del rossetto della moglie di lui. A quel punto, avviene lo spostamento di senso, almeno apparente, per il caos ontologico di Anaïs, che si scrolla in continuazione dalle spalle la precarietà e lo smarrimento dei trentenni (o dei ventenni…non c’è nessuna precisa connotazione anagrafica, ne particolare riferimento alla contemporaneità) nella relazione con la pacificata, rilassata identità di donna di Emile, che rimane lì, in attesa del primo o dell’ultimo bacio, dietro la svolta possibile di un rendez-vous campestre, nella reiterata contemplazione del raggio verde di un orizzonte condiviso, seppur crepuscolare.
È un cinema, in sostanza, derivativo e precocemente codificato, nonostante Bourgeois-Tacquet sia un’esordiente; e, a parte le già dichiarate e garbate citazioni, noi abbiamo scorto tra le righe la volontà più ambiziosa di fare da contro campo all’altra grande storia di eros e amore femminile del cinema degli ultimi dieci anni: certo, il fiammeggiante e carnale La vita di Adele di Abdellatif Kechiche, a proposito di tempo, si estendeva con ben altra forza visionaria e narrativa sull’arco di tutte le sfumature dell’amore anche fisico, dall’euforia al disincanto, ma aveva ugualmente due protagoniste agganciate l’una all’altra da un forte impatto visivo e immaginifico (il blu dei capelli di Emma per Adele, il biondo intenso di Emile per Anaïs) e separate dalla differenza di età (più accentuata tra Emile e Anaïs), e da un’estrazione sociale e culturale (l’intellettuale e l’artista benestante con la ragazzina piccolo borghese e ancora in formazione). E se il sesso in Kechiche è animalesco, divorante ed estenuante , al contrario c’è qui un altro punto di vista dell’incontro e della scoperta tra due corpi femminili uguali e diversi, con la restituzione di una tenerezza, quasi di un pudore nello scoprirsi che accompagna e non invade (lo scenario, del resto, è il sublime di una spiaggia assolata e isolata contro l’angusta cameretta di Adele, stravolta in un furioso, eccitante campo di battaglia per consumare la passione tra lei ed Emma).
Il problema è che si ha la sensazione costante di trovarsi di fronte ad un accumulo di suggestioni appartenenti a un cinema che ci è piaciuto, e che però non riesce ad andare oltre all’esposizione di una grazia e un’intelligenza, ad una superficie levigata e suadente come la pelle di Anaïs Demoustier, cosi aderente e autentica rispetto al suo omonimo personaggio da far pensare ad una nouvellevaguiana sovrapposizione di biografie tra finzioni e realtà. Anche la scelta azzeccata di una Valeria Bruni Tedeschi ariosa e sensuale come non mai si riduce un po’ ad un riporto, una versione sofisticata e adulta della fornaia di Nénette e Boni di Claire Denis.
Ci piace vedere però, soprattutto in quel detour finale che ribalta il cliché del mélo al quale a un certo punto sembrava votato (e che mancava all’appello del défilé di stili e temi sul cinema francese dei sentimenti…) la possibilità di una maturazione nello sguardo di questa giovane regista in cerca di una sua dimensione autoriale, anche se negli occhi finora rimane un’immagine che rimanda sempre ad altro: come quel blu del vestito di Emile durante il ballo in campagna con Anaïs, il colore più caldo con cui anche Kechiche veste la sua Adele nella sequenza più desolante, ma altrettanto intensa, di una seduzione che non è più gioco e stupore, ma rimpianto e solitudine.
In sala dal 28 aprile
Gli amori di Anaïs (Les amours d’Anaïs) – Regia e sceneggiatura: Charline Bourgeois-Tacquet; fotografia: Noé Bach; montaggio: Chantal Hymans; interpreti: Anaïs Demoustier, Valeria Bruni Tedeschi, Denis Podalydes, Anne Canovas, Bruno Todeschini , Jean Charles Clichet; produzione: David Thlon, Stephane Demoustier, Philippe Martin, Igor Auzepy; origine: Francia, 2021; durata: 98’; distribuzione: Officine Ubu.