Hai mai avuto paura? di Ambra Principato

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Opera piena di segreti e  di segregazioni, Hai mai avuto paura ? è il suggestivo esordio alla regia di Ambra Principato che si pone immediatamente , attraverso l’immersiva e straniante atmosfera della fiaba gotica, in un tempo fuori dal tempo e in un luogo che è  fatto della sostanza astratta e trasfigurata dell’immaginario, più che quella fisica e topografica  della geografia. Ma è un immaginario imploso, ossessivo, malsano quello che rimbalza tra gli sguardi, i non detti e i bisbigli di  Orazio, ancora bambino, e  il fratello Giacomo, poco più che adolescente, figli di un’ aristocratica famiglia di possidenti in un desolato borgo dell’Italia del 1813 (anche se per iniquità e oscurantismo sembra  che tutti siano rimasti intrappolati nella più cupa versione del feudalesimo medioevale). Il padre dei due ragazzini è infatti un conte che, assieme all’arcigna e masochista moglie,  mantiene le distanze dal popolo-plebe , chiudendo  letteralmente l’intera famiglia dentro il castello/magione ereditato, assieme alle terre circostanti, dalla propria dinastia nobiliare. Elementi narrativi che non si limitano però ad essere basici indizi per dipanare la trama del mistero che attanaglia quel classista microcosmo di tarati sfruttatori e annichiliti sfruttati ( una “bestia” notturna  innominabile e imperscrutabile comincia ad uccidere prima capre e pecore, e poi gli abitanti del villaggio,  in particolari in più fragili ed emarginati della comunità );  lo sguardo giovane ma già così precisamente ed endemicamente aderente alle proprie immagini di Principato, fa comprendere, anzi fa sentire la tensione e lo strappo/scarto tra la realtà percepita dai sensi e la proiezione onirica e pulsionale che ne scaturisce dalla risonanza Orazio-Giacomo nel rapporto tra dentro/interiorità e fuori/esteriorità, vedibile e invedibile e, nel solco dello specifico filmico, campo e fuori campo.

Il villaggio come luogo  è come se in qualche modo non esistesse,  e si manifesta solo nell’ammassarsi dei  corpi e dei  volti rabbiosi e spaventati di coloro che lo abitano, oppure più idealisticamente nell’eco e nelle luci distanti di un ballo serale durante una festa paesana, che i due fratelli contessini possono scorgere dall’occhio buco della serratura di un binocolo, nell’imperante oscurità della loro stanza.  E anche le fameliche razzie umane ed animali della belva non vengono mai filmate, a dirne l’insostenibilità e l’intollerabilità non tanto dell’azione in sé quanto dell’identità/entità di quella creatura, il suo essere inaccettabile  dalle leggi immanenti e mutabili degli uomini, come da quelle eterne e cicliche della natura. Da questo punto di vista, e ricollegandoci anche al titolo scelto dall’autrice (anche sceneggiatrice che, assieme a Carmen Danza, ha adattato abbastanza liberamente un romanzo di Michele Mari, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti) , il film sembra essere una lunga, fitta, intricata soggettiva libera indiretta, dove il punto di vista che viene riprodotto non è quello di questo o quel personaggio, ma, ambiziosamente, di un sentimento, di quella paura /angoscia che si pone, attraverso la manifestazione della voracità animale, come  liminale essenza dell’orrore, spinta propulsiva e insieme psicotico deterrente  tra il vedere e il  non vedere.

La stessa  conoscenza alla quale Giacomo è costretto dai genitori (con una mentalità più spostata verso un pragmatismo da borghesia pre-capitalista), quando il ragazzo sarebbe attratto più spontaneamente, in un mood da romanticismo ottocentesco e con la fattezze di un epigono di Byron e Keats (inclusa una salute traballante che lo condanna all’isolamento), verso la poesia, è uno strumento di repressione e di controllo, di non sublimazione di un’istintività predatoria e sessuale che una struttura sociale da residuale  ancien regime vorrebbe esprimere come espansione e imposizione su un mondo in decomposizione/ trasformazione, sospeso ancora tra religione di stato e di corte e arcaico paganesimo.

Il sapere altro, inclusa la storia degli antenati di quella ambigua casata delle tenebre, è  letteralmente negato dalle pagine strappate di un libro dimenticato e ritrovato  nella biblioteca del palazzo, nelle mostruose figure ritratte che appaiono e scompaio come i  graffiti rupestri  di un horror neo paleolitico, nei rumori che rimbombano familiari e spaventosi  per le stanze e i corridoi. E con un sapiente, progressivo spostamento, il testimone sempre meno invisibile di un male psicosomatizzato bones and all (anche perché la belva prosciuga completamente le vittime del loro sangue) passa dallo sbigottimento  cristallizzato e immobile di Giacomo, il cui inorridito tormento interiore per ciò che ha scoperto è qualcosa che lo divora e non lo nutre, allo spavento dinamico innescato  dalla curiosità infantile e meravigliata di Orazio.

Ma non si tratta di uno spostamento dello sguardo di cui, come dicevamo,  la paura è in questo caso il soggetto di espressione e non l’oggetto di osservazione, ma dell’intensità e della concentrazione con cui quel basico sentimento si fa voce/visione di tutto quello che c’è attorno. È chiaro che, per gli appassionati di questo genere frequentato in maniera cosi anomala e discontinua dal nostro talvolta poco audace cinema, ci sono dei rimandi e delle affinità: quelli più evidenti hanno a che fare con la ricca e piuttosto longeva vena fantastica e noir perseguita da Pupi Avati, che forse proprio con questa forma ha trovato le sue ispirazioni e i suoi risultati migliori (viene da pensare, in un possibile vis a vis con Hai mai avuto paura del buio?, a una certa, rarefatta , ipnotica patina di rurale e provinciale  maledettismo d’epoca come ne Le strelle nel fosso o nel recente Il signor Diavolo, 2019); ma andando oltre gli argini pur aperti  e contaminati del genere, con le dovute e proporzionali differenze, il far emergere la violenza anche libidinosa, gli appetiti della carne,  un vitalismo distruttivo  e rapace ( peraltro represso nella  furia autopunitiva della madre contessa che espia l’indicibile senso di colpa in una cattolica flagellazione autodafé) fa pensare in qualche modo al cinema di Marco Bellocchio, a cominciare proprio dall’ ultimo Rapito, dove un ben più strutturato, enorme e incontrastabile potere, quello del clero incarnato/identificato dall’assolutismo e dal dogmatismo egoico di Papa Pio IX , insinuava in un bambino il germe di una mostruosità; il rifiuto imposto per editto papale della propria famiglia e delle proprie origini ebraiche e l’accettazione di un nuovo statuto umano,  sociale e religioso. Una cesura che avrebbe generato una schizofrenia e una psicosi, una frattura interna mai sanata.

Ambra Principato sembra andare più in questa suggestiva direzione di divieti, costrizioni, prigioni fisiche, intellettuali, emozionali, con una dichiarata intenzione di coinvolgere un pubblico cronologicamente il più trasversale possibile (la coincidenza di fabula e intreccio, con il progressivo degenerare  degli avvenimenti, permettere di mantenere l’attenzione alta a qualsiasi età), anche a grazie ad un lavoro sottile, tra pathos e iconica stilizzazione, sugli attori:  dai giovani protagonisti Justin Korovkin/Giacomo e Lorenzo Ferrante/Orazio, fino alla facce e intense e scavate dei ruoli secondari, tra i quali si distinguono il mellifluo zingaro Scajaccia (Mirko Frezza) dai poteri alchemici e il maternage della serva/cuoca Marta (Claudia Della Seta), laddove non sembra più esistere contatto e accoglienza , ma solo superstizione e diffidenza.

Non c’è una rappresentazione troppo esplicita, materica, tattile della pulsione orrorifica, e in quel caso  anche erotica, come nel  potente e visionario La Bestia di  Walerian Borowczyk, che viene per affinità con una storia di nobiltà perseguitata da una maledizione tra folklore e leggenda,  dove la dimensione umana e quella umana convivono in maniera promiscua e irrisolta.

Lo sguardo di Orazio invece è sempre (dis) orientato verso  un altrove più spaventoso e senza catarsi  perché, nel profondo di se stesso sa che, come diceva La Sfinge dell’ Edipo Re di Pasolini rivolgendosi al personaggio sofocleo, “L’abisso in cui cerchi di gettarmi è dentro di te”.

In sala dal 27 luglio 2023


Hai mai avuto paura?Regia: Ambra Principato; sceneggiatura: Ambra Principato e Carmen Danza, liberamente ispirato al romanzo Io venìa pien d’angoscia a rimirarti di Michele Mari; fotografia: Davide Sondelli;montaggio: Pietro Morana; musica: Pasquale Catalano; interpreti: Justin Korovkin, Lorenzo Ferrante, Elisa Pierdominici, David Coco, Marta Richeldi, Mirko Frezza, Claudia Della Seta, Mauro Marino, Sveva Mariani; produzione: Marco De Micheli per Redvelvet in collaborazione con Vision Distribution; origine: Italia, 2023; durata: 95 minuti; distribuzione: Vision Distribution.

 

 

 

 

 

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