I morti rimangono con la bocca aperta di Fabrizio Ferraro

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1944, Monti Marsicani, Appennino Centrale. C’è una precisa indicazione spazio-temporale che appare in calce sul bianco dei titoli di testa de I morti rimangono con la bocca aperta, l’ultimo film di Fabrizio Ferraro passato in Concorso alla Festa di Roma e ora in anteprima su “Fuori orario” nella notte dell’11 novembre, ma non si tratto di un dato storico o di un’informazione geografica. Quello che vedremo sullo schermo sarà piuttosto un’ evocazione o, meglio, un’emanazione di quel luogo e di quel tempo che trova un senso ancora più pregnante nella prima citazione , sempre posta in calce alla nivea inquadratura: …in ricordo del presente.

Le figure che si muovono inesorabilmente per il paesaggio afflitto dal peso e al tempo stesso attraversato dalla grazia del candore delle neve sono i membri appartenenti a un gruppo di partigiani: il loro spostarsi, nel tornello di un corto circuito che mette in contatto la sedimentazione di un avvenimento già accaduto con la tensione di un’esperienza nel suo compiersi, sembra essere alimentato, senza soluzione di continuità, dallo strategico bisogno  di sfuggire ai soldati tedeschi e dall’idealistico e implacabile principio di cercare e uccidere i compagni traditori e i collaborazionisti ( giudicati in quest’ottica anche peggio del nemico straniero). Ma quello che interessa a Ferraro è situato dichiaratamente nel costante altrove  in cui  quei boschi e quegli altipiani sotto la plumbea oppressione del rigido inverno, annunciatore della condizione terminale e crepuscolare verso cui ormai virava la guerra, vengono trasfigurati da una cupa essenzialità skolimowskiana (forse qualcuno ricorderà Essential Killing, opera radicale del grande regista polacco , con protagonista un soldato afgano in fuga per un limbo invernale ancora  piò apertamente  ostile) e dalla sublimazione estetica e la riflessione etica contenute in un respiro di silenzio e attesa. Perché all’interno di questo campo di forze e di rassegnazioni vengono poste questioni di coscienza rispetto ad una scelta che, da paranoide ed ossessiva , può ribaltare il suo segna e diventare la concretissima utopia di un’ apertura, di un nuovo inizio.

Lo scontro tra il comandate della brigata, che vorrebbe giustiziare la ragazzina catturata e accusata di aver passato informazioni all’esercito nemico, e l’esitante e introspettivo partigiano, possibile variazione permeata di laico dubbio e prosciugata intensità del cristologico e umanissimo Jim Caviziel malickiano de La sottile linea rossa, decostruisce una retorica di guerra e di guerriglia e si fa rappresentazione di uno scoramento e di una desolazione.

La distanza adottata dalla mdp nei confronti dei personaggi, ripresi in campi lunghi, lunghissimi e medi, a tratti  dà la sensazione di essere un filtro che avvolge i corpi pulsanti sotto traccia e li staglia nella cornice di un ricordo che non è solo vividamente intarsiato nella sostanza materica di uno scenario ghiacciato , ma immobilizzato nell’impasse di un vuoto trafitto da una luce metafisica,  pochi passi prima dell’orlo del baratro;  un requiem di (falsi) movimenti accompagnato dall’ipnotico Fra Martino nella variazione in marcia funebre che ne fece Gustav Mahler nel terzo movimento della sua Sinfonia numero 1 in Re maggiore. Ma proprio come l’ondulante e complessa architettura compositiva mahleriana, non si resta intrappolati, seppur nella frontalità del piano sequenza espanso dalla profondità di campo, in un mentale non luogo generato da una memoria raggelata dalla perdita dell’orientamento e dallo smarrimento di sé.

Emerge, nell’innesto della voce dissonante, quasi da monologo interiore off, del già menzionato partigiano in crisi esistenziale, una volontà di elaborare e mettere in discussione l’esperienza estrema destinata al sacrificio personale oppure all’uccisione dell’altro identificato nello specifico come invasore e usurpatore  ( a parte una scena di combattimento,  peraltro magistralmente articolata in ogni assalto e fuga,  la violenza è tenuta fuori campo e la minaccia ne è evocata fino a diventare buzzatiana allegoria di una condizione esistenziale, da Deserto dei Tartari sepolto dal biancore abbagliante dell’inverno degli Appennini).  La scelta di non ricorrere al primo piano va dunque proprio nella direzione di mantenere viva l’attenzione , di far scrutare con una propensione attiva e partecipata le sfumature chiaroscurali di una luce che è mistero e rivelazione insieme. Anche a livello sonoro le parole,  nel manifestarsi con un tono sussurrato, sono da decifrare non solo e non tanto per il loro significato letterale ma anche e soprattutto per comprenderne la  provenienza e ,se possibile, intuirne la destinazione. Si spezza la percezione di andirivieni circolare e ossessivo da un punto all’altro, e lo spiazzamento provocato da un incontro con un altro essere umano, fuori dal pregiudizio di una funzione ineluttabile e inevitabile per certi versi ( la logica barbara ed esasperante del codice militare che costringe ad eliminare il compagno traditore in un permanente stato di legge marziale) introduce differenti prospettive esterne e intime risonanze interiori.

Ed è particolarmente toccante una sequenza in cui l’ordine brutale ed immediato dettato dalla sopravvivenza è interrotto dal suggestivo collegamento tra l’esitazione sentimentale per un amore non consumato e l’impossibilità a compiere un’esecuzione di condanna a mortale . Il soggetto desiderato, nella reviviscenza dello sguardo all’origine di ogni forma di immaginario desiderante, viene emancipato dal ruolo cristallizzato di eterno ritorno, e si incarna nella pietosa innocenza che disarma (letteralmente) e libera . In ballo c’è la salvezza di una comunità obbligata ad essere clandestina, emblematica di un mondo ,quello del 1944, che stava per essere liberato e che fremeva sul confine estremo di un fronte occidentale in attesa di fare ulteriore esperienza su cosa ne implicasse l’attraversamento. Oltre alla riformulazione di un’anarchica linea Maginot che segna per ogni combattente un di qua e un di là per cui vivere o morire, la Storia è vissuta non come concatenazione di fatti e conseguenze ma come avvenimento intrapsichico e intersoggettivo. E nel solco di una visionarietà cosi perturbante, Ferraro aggiunge l’ intuizione di un fuoricampo terrorizzante nell’aspettativa di una possibile apocalisse ed entusiasmante nell’indicazione di una via d’uscita dalla realtà ormai  ridotta a scarna e rarefatta proiezione di un loop psicotico di vittime e carnefici.

Un percorso in reverse che ci porta di fronte all’evocazione dell’immagine contenuta  nel titolo,  quella di una bocca rimasta aperta e fremente in contrappunto alla staticità mortuaria del corpo a cui appartiene, nella richiesta in extremis di un ascolto che riecheggia in un rimbombo, un suggerimento , un monito. La distanza che intercorre tra il passare e il trapassare, tra lo scegliere di donarsi alla caotica vertigine della vita e l’immolarsi al doppio spettrale della morte.

In anteprima tv l’11 novembre su Fuori orario  ore 01.35


I morti rimangono con la bocca aperta ; Regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio : Fabrizio Ferraro; Interpreti : Emiliano Marrocchi, Domenico D’Addabbo, Fabio Fusco, Olimpia Bonato, Antonio Sinisi; Produzione : Boudu, Passepartout, Eddie Saeta; durata: 84′; Origine : İtalia/Spagna, 2022.

 

 

 

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