MedFilm Festival: Nezouh di Soudade Kaadan (Fuori concorso)

Un mortaio, una bomba, un mortaio alla volta. Damasco è una città sotto assedio, il suo destino è sospeso tra il resistere a oltranza o il cedere nell’immediato. Perciò, o sei nel regime o sei tra i liberatori. E poi c’è una terza categoria: il displaced, lo sfollato, o meglio, lo “spostato” perché un luogo che proprio luogo era lo aveva, e ora non lo ha più. Si cerca altro, si cerca il mare e ciò che questo può contenere: per esempio, semplicemente, l’assenza di mortai bombe proiettili. Nezouh per la regia di Soudade Kaadan è un film innanzitutto gentile verso i suoi personaggi, e così nei confronti del popolo siriano. Né pianti né lacrime, solo sorrisi per la storia di una famiglia che cerca di rimanere nella sua casa quando della casa rimane bene poco, ma tra lenzuola fatte finestre e cieli divenuti mare si prova ad andare avanti. Bella la regia – davvero lodevole i movimenti di camera negli interni -, meno convincente la scrittura che indebolisce il messaggio finale peccando di tensione: perché si voglia essere liberi, anche lo spettatore deve prima passare – almeno per un istante – per l’incubo e non vivere soltanto di sogni e fantasie.

I bottoni dei maglioncini di Zeina non si chiudono più. Il seno le è cresciuto e quando sta per entrare in bagno, la madre le va incontro alzando un pacchetto di assorbenti.

Da quanto?

Due mesi.

Non sprecarli. Sai quanto costano con l’assedio?

Perché la città è sotto assedio da tempo e non rimane molto, giusto lo scheletro. La pelle degli edifici è stata strappata brano a brano. Solo la loro casa, quella di Zeina e genitori, è salva. Il padre costruisce generatori per avere luce notte e giorno, fa spedizioni sotto il tiro dei cecchini per recuperare alimenti e acqua, fa insomma l’impossibile perché alla famiglia non possa mancare nulla, e questo perché:

Vuoi che mi chiamino profugo? Sono figlio di Damasco.

E rimproverando Zeina, scoperta con un pennarello in mano:

Ti ho detto di non disegnare sui muri. Li rovini.

Un giorno però i muri si rovinano davvero. Sul tetto della camera di Zeina si apre un buco, la casa è distrutta e così le gerarchie famigliari: la madre vuole andarsene, il padre no, e Zeina non può far altro che aspettare. Non è sola però, c’è anche una fune. Dal buco del soffitto la fune scivola nella sua camera e all’altro capo c’è un ragazzo. È Amer. Un vicino sveglio e un poco nerd che l’aiuta a sognare un mondo diverso. Perché un mondo diverso c’è, è su uno schermo vista mare. E forse quel mare esiste veramente. Bisogna però decidersi e saper lasciar indietro chi decidersi non vuole.

Soudade Kaadan porta con sé una visione. È una visione allegorica e leggera, nel quale la guerra è luce e i suoi personaggi si muovono in quella luce. Laddove cadono bombe risponde l’umorismo, quello buffo del padre che vede solo casa laddove ormai al posto dei muri ci sono tende e al posto di porte buchi, quello leggero e sognatore dei due ragazzi che fuori dalla casa vivono la prima adolescenza, un’adolescenza unica e viva per il tempo di un assedio. Ma c’è anche umorismo sul sociale, quello riguardante una figura paterna che nella famiglia non ha più la forza di un tempo e così viene ridotta al ridicolo. Una guerra che nel distruggere ha pure distrutto quella società patriarcale per cui la guida è definita e madre e figlie devono seguire, e con lo sconvolgimento ha invertito i ruoli: chi deve inseguire, ora, è qualcun altro. E pregare per essere ascoltato. Il tempo di guerra è dopotutto un tempo altro, può essere un tempo futuro quindi, e gli effetti collaterali seguono a ruota quelli principali. È la contraddizione della Storia.

Nezouh in arabo indica lo spostamento di anime, acque e persone. Spostamento non solo come fuga dalla guerra, ma movimento interno al conflitto stesso: lì è tutto un movimento, come un fiume in corso, e la luce nel riflettere non crea solo punti oscuri ma anche tanti bagliori. È un bagliore il film per la prima parte. Tra le pareti (e non) della casa e la possibilità di fuga lassù, in quelle finestra verso il cielo e l’infinito, si crea una poetica cinematografica che ben si coniuga al tono leggero adottato dalla regista. Vi è naturalità, è bello. Si pecca invece nella seconda parte, quando le dinamiche famigliari e sociali nonché il discorso emancipatorio divengono più scoperte e il sogno rischia di mangiarsi l’incubo della guerra. E sogno e incubo hanno bisogno del loro spazio vitale in quel sonno desto chiamato adolescenza.


Nezouhregia: Soudade Kaadan; sceneggiatura: Soudade Kaadan; fotografia: Helene Louvart, Burrak Kanbir; montaggio: Soudade Kaadan, Nelly Quettier; scenografia: Osman Özcan; costumi: Selin Sözen; musica: Rob Lane, Rob Manning; suono: Steve Single, Thomas Robert, Paul Davies; effetti visivi: Serdal Ates, Ahmed Yousry; produzione: Berkeley Media Group (Yu-Fai Suen), KAF Production (Soudade Kaadan), Ex Nihilo (Marc Bordure); origine: Regno Unito, Repubblica Araba Siriana, Francia; durata: 100’.

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