Qualche anno fa, in uno dei suoi soliti brillanti sketch, un Crozza nelle vesti di Rosario Crocetta, ex- governatore della Sicilia, premuto dalle insistenze dell’intervistatore, dava conto dell’acquisto della regione per due milioni di cancelleria, tra cui non poche penne e matite.
Noi qui siamo terra di Quasimodo, di Sciascia, di Verga, di Vittorini, di Pirandello…se non con le penne, Guttuso con cosa disegnava, con la minchia?
E splendidamente, in una sola battuta e controbattuta, veniva descritta la Sicilia, patria di eccezionali lettere, non indifferenti buchi di bilancio e nostrano umorismo. Perché la Sicilia è una terra che è al contempo diversa e uguale all’Italia. Nemesi e comunque sintomo primo. Ispirata dalla propria natura di isola, arroventata dalle contraddizioni e dominata dall’assenza.
Il sipario de I viceré di Guglielmo Ferro si apre con la morte della principessa Teresa Uzeda di Francalanza e la sua volontà di riposare nella semplicità di una tegola sotto il cranio e…e una cassa di cristallo. La famiglia Uzeda si raduna in cordoglio, tra sussurri e bisbigli, perché l’eredità è vasta e la casata è infestata da uomini e donne di Chiesa, borbonici, rivoluzionari, e da Don Blasco che ammette senza tanti giri che
La famiglia è piena di preti, frati e suore, e dai preti gli Uzeda si sono sempre fatti minchionare…spogliare, diciamo, è meglio!
E contando che ciò è detto da un benedettino, per quanto vizioso, è tutto dire. Il testamento è presto svelato: tra i vari lasciti vengono nominati eredi principali i due figli Giacomo e Raimondo, perché la principessa teneva
Gli occhi strabici, uno dritto e l’altro storto.
Giacomo, primogenito, cresciuto nell’odio perché possa essere lui a guidare la famiglia in tempi nuovi, sempre con la meschinità tipica degli Uzeda. Raimondo, scialacquatore e amante frivolo del lusso e delle donne. Non è difficile capire chi sia l’occhio dritto e quello storto. Ma oltre ai due, a godere dell’eredità, c’è il resto della famiglia: una schiera di personaggi legati da sangue corrotto per l’antica ricchezza, sporcato dai continui matrimoni combinati. Una famiglia nella quale ognuno odia l’altro e l’avidità come la crudeltà la fanno da padrone. E mentre gli Uzeda si mangiano tra di loro, fuori dai palazzi il mondo da borbonico diventa piemontese e nonostante le sfuriate di Don Blasco
Ma chi è Garibbaldi? Io manco lo conosco Garibbaldi.
nessuno aspetta gli Uzeda. Non che chiedano di essere aspettati, novelli darwiniani loro sanno che non vince il più forte, ma chi si sa adattare:
Osserva e ascolta!
Suggerisce Don Blasco al nipote Consalvo, fresco di gioventù, perché il tempo è passato e
Ora che l’Italia è fatta, bisogna pensare agli affari nostri.
A quelli di famiglia Uzeda.
Tra i vari nomi di letterati chiamati in causa, nella sua battuta Crozza scorda quello di De Roberto. Primo discepolo di Verga, le pagine del siciliano avrebbero anticipato per temi quelle di Sciascia e Tomasi di Lampedusa, in uno stile verista e naturalista ormai passato che non permise al libro di ricevere successo sul breve periodo e all’autore in vita, mentre ebbe larga attenzione dai posteri. Il regista Guglielmo Ferro opta per un adattamento abbastanza fedele al libro, per quanto riguarda trama e personaggi, e gioca su una scenografia a doppio livello, nel quale il primo è una tendina mobile e il secondo una struttura ferma. Su entrambi i livelli è poi il gioco dei videoproiettori a creare i vari scenari, gli interni come gli esterni. Una buona idea che alla lunga però non risolve appieno l’immobilità dello spettacolo tutto – forse voluta perché coerente con il carattere degli Uzeda, tuttavia sul lungo periodo gravata dalla monotonia.
Dopotutto, la volontà di mettere in scena lo spettacolo si scontra con un libro dalla mole non indifferente, e con l’andare – soprattutto dal secondo atto in poi – le vicende di alcuni personaggi tendono a essere abbandonate. Di conseguenza la trama stessa fatica a intrattenere appieno e, giunti a quel punto, l’opera va a sorreggersi pienamente sul suo primo attore, Pippo Pattavina, certo di indiscutibile bravura, ma non controbilanciato nella sua verve e presenza scenica. Più si avanza, più l’opera finisce per vivere solo quando lui è presente e questo è un peccato.
I Viceré di Guglielmo Ferro è quindi un buon spettacolo, che affronta un’impresa forse troppo grande per il palco di un teatro. Se si loda la capacità di metterlo in scena in un tempo relativamente breve, all’incirca due ore e mezza, e si apprezza una scenografia comunque efficace (forse non abbastanza coraggiosa), si pecca invece nel distribuire forza ai vari personaggi e così nel ritmo, con una sensazione certo interessante di acqua in ebollizione continua, ma senza scatti o rallentamenti che possano prendere al meglio lo spettatore. Rimane la forza del messaggi principale, che in un certo senso riprende le redini dell’opera e la porta sul finale: la Sicilia è l’anti-Italia e l’Italia per eccellenza, e noi italiani abbiamo non poco in comune con loro, con gli Uzeda che
quando c’erano i Viceré, erano Viceré. Ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento.
E così senza fine: camaleontici, pronti ad adeguarsi ai tempi.
Dal 29 novembre al 4 dicembre al Teatro Quirino, Roma.
I Viceré di Federico De Roberto – regia: Guglielmo Ferro; interpreti: Pippo Pattavina, Sebastiano Tringali, Rosario Minardi, Francesca Ferro, Rosario Marco Amato, Nadia De Luca, Giampaolo Romania, Francesco Maria Attardi, Elisa Franco, Pietro Barbaro, Giovanni Fontanrosa, Alessandra Falci, Giuseppe Parisi.