Inverso – The Peripheral di Scott B. Smith

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Sui monti Blue Ridge, nel cuore dell’America rurale, esiste un mondo che assomiglia al nostro, ma non del tutto. Siamo nell’anno 2032, in un futuro meno prossimo di quanto possiamo immaginare: qui la gente vive ancora in piccoli agglomerati urbani accerchiati dalle foreste, ma dispone di tecnologie ai limiti del fantascientifico. L’effetto Black Mirror è dietro l’angolo, ma la serena indifferenza con cui i personaggi si arrabattano fra supercomputer e interfacce aptiche rimuove dalla distopia il tradizionale senso d’inquietudine che altrimenti le spetterebbe. È in un tale contesto che conosciamo Flynne Fisher (qui interpretata da un’intensa Chloë Grace Moretz), la classica ragazza della porta accanto dotata di un animo naturalmente generoso e di un’atavica passione per i videogiochi. Nulla di strano, per carità: sui monti Appalachi dell’avvenire, realtà virtuale e ordinaria monotonia si sovrappongono – è come se gli abitanti di Twin Peaks avessero viaggiato nell’universo di Blade Runner, e ne fossero rientrati con un certo tedio.

L’originalità di Inverso – The Peripheral sta proprio nel freddo cinismo dei suoi protagonisti, della sceneggiatura, della cinepresa che riduce l’inverosimile a mera consuetudine. Tratta dall’omonimo romanzo dello scrittore canadese William Gibson, la serie si sviluppa sulle medesime coordinate di Cyberpunk 2077 (il celebre videogame a cui Keanu Reeves ha di recente prestato il volto), ma trasportandone le gesta al di fuori del perimetro cittadino, al di fuori della metropoli deforme e abbacinante che divora gli uomini per costruire automi. Al contrario: i registi Scott B. Smith, Jonathan Nolan e Lisa Joy liberano il genere Sci-Fi dalla patina iridescente e sinistra che lo caratterizza, dai quesiti morali che gravitano attorno al cosiddetto lato oscuro della civiltà avanzata. Flynne Fisher, non a caso, è il prodotto in serie di una società già profondamente diversa dalla nostra, di un microcosmo in cui la vecchia Babilonia si è fatta agreste, quotidiana, apatica, indolente, normale.

Attorno all’eroina che non è una vera eroina, dunque, si aggirano il fratello ex-marine Burton (Jack Reynor) e il compagno mutilato Conner (Eli Goree), entrambi reduci da un controverso esperimento militare che vede i corpi dei singoli soldati fondersi in un’unica, funesta macchina da guerra grazie all’impianto di protesi sottocutanee. In breve, ognuno sente ciò che sente il suo simile, ognuno vede ciò che vede il suo simile. E non vale soltanto per chi viene spedito al fronte, ma questo lo impareremo strada facendo.

Come ogni Western che si rispetti, all’appello non mancano il boss della malavita Corbell Pickett (Louis Herthum) e il suo scagnozzo Jasper (Chris Coy), un orfano un po’ tonto a cui si può far credere che gli asini volano e che un giorno i suoi sacrifici verranno ricompensati. Aggiungiamo poi uno sceriffo corrotto e un poliziotto senza macchia e senza paura – un ruolo, quello del “buono” potenzialmente nocivo, che sembra scritto apposta per la fisionomia torva e accigliata di Alex Hernandez. A chiudere il cerchio sarà la madre dei fratelli Fisher (Melinda Page Hamilton), una donna ancora giovane ma consumata da una malattia che la rende cieca e distante.

A proposito di distanze e di ciò che i nostri occhi dovrebbero o non dovrebbero osservare, è il momento d’introdurre l’espediente narrativo per eccellenza, la valigetta di Pulp Fiction, il MacGuffin che MacGuffin proprio non è: si tratta, in questo caso, di un visore per realtà virtuale prodotto dalla misteriosa azienda colombiana Milagros Coldiron. Flynn, cresciuta a pane e videogiochi di guerra (letteralmente!), decide d’immolarsi in qualità di beta tester, di aprire dunque la famosa ventiquattrore, dando il via al necessario effetto domino che sconvolgerà la nostra impassibile Twin Peaks 2.0.

Indossare un visore equivale, lo sappiamo bene, ad aprire il vaso di Pandora (si legga: l’umana facoltà d’intendere e di volere). Così, la ragazza verrà scaraventata in una Londra futuristica e incolta sulla quale troneggiano enormi statue greche – riproduzione di una civiltà ormai scomparsa nella leggenda – e un cielo lattiginoso dall’aspetto marcescente. Qui vagano Wolfgang-Wilf Netherton (Gary Carr) e Alita West (Charlotte Riley), anch’essi fratelli, ma reduci da un’apocalisse collettiva nota ai più con il curioso epiteto di “Jackpot”. La catastrofe di cui si parla, infatti, è il risultato di un altro, più drammatico effetto domino – quello, se vogliamo utilizzare un lessico biblico, delle sette piaghe d’Egitto: carestia, conflitti, pestilenze, disastri naturali, perdita delle risorse primarie, tenebre. Morte dei primogeniti – l’ultimo flagello, Flynn lo scoprirà strada facendo.

Wilf e Alita, lo si capisce dal primo istante, sono l’immagine riflessa dei Fisher. Allo stesso modo, ogni inquilino di questo domani non proprio rassicurante pare fatto di vapore, o di pixel, o di codice, come se ci trovassimo davanti agli NPC (Non-Playable Character, o comparse) di un banalissimo gioco per computer. Mai, nemmeno per un momento, crediamo questa Inghilterra distopica e semideserta più reale degli Appalachi con le loro tinte accese, i loro saloon e la gente stanca che si aggira per roulotte e case di cartongesso. Ma le prime impressioni sono sempre sbagliate. E se vi rivelassimo che ad essere tangibile è proprio la metropoli di Blade Runner, e non la squallida cittadina americana in cui tutti siamo costretti a sopravvivere? E se, come Flynn e Burton, un giorno scoprissimo di non essere altro che un frammento, o meglio, una periferica destinata ad estinguersi con la rapidità di una scintilla? E se fossimo noi le maschere fatte di cifre, se fossimo noi i fantasmi, i figli illegittimi di un universo parallelo, i sottoprodotti di una deviazione spaziotemporale che non avrebbe mai dovuto aver luogo?

A un ventennio dai buchi neri di Donnie Darko, dagli automi di Matrix, dalle marionette formato John Malkovich di Spike Jonez, il grande schermo scoperchia nuovamente gli incubi con cui si aprì il terzo millennio: The Peripheral non è che l’ultimo tassello di un effetto domino partito, quest’anno, dal sarcastico Everything everywhere all at once, per poi sfociare negli incubi del chiacchieratissimo 1899 – una produzione, quest’ultima, molto più autoironica e interessante rispetto allo sceneggiato di Smith, Nolan e Joy. Lo affermiamo, tuttavia, senza nulla togliere alle imprese dei Fisher, né alla discreta nonchalance con cui i loro comprimari si lasciano scivolare da una superficie all’altra, da una coscienza all’altra, da un mondo all’altro. È infatti, lo ribadiamo, questa serena indifferenza ad animare ogni puntata, a rendere il genere Cyberpunk molto più empirico, carnale, materico di quanto non ci si aspetti. Una menzione d’onore va attribuita a T’Nia Miller e Alexandra Billings nei rispettivi panni dell’algida Dottoressa Cherise Nuland e dell’ispettore Ainsley Lowbeer (per intenderci: lo yin e lo yang dell’avvenire). Abbiamo come l’impressione che le prossime stagioni, se mai ci saranno, avranno l’obbligo di concedere maggiore spazio a queste due entità femminili. Le quali, dietro al sorriso laconico, ad un’imperturbabilità soltanto apparente nonché all’enigmatica consapevolezza di chi sa, ci appaiono infine pericolosamente umane – molto più di Flynn, ad esempio.

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Cast & Credits

Inverso – The Peripheral  –  showrunner: Scott B. Smith, con la partecipazione di Jonathan Nolan e Lisa Joy; sceneggiatura: Scott B. Smith; fotografia: Stuart Howell; montaggio: Andrew Groves, Asher Pink; stagioni: 1; episodi: 8; interpreti principali: Chloë Grace Moretz (Flynne Fisher), Gary Carr (Wilf Netherton), Jack Reynor (Burton Fisher), JJ Feild (Lev Zubov), T’Nia Miller (Cherise Nuland), Louis Herthum (Corbell Pickett), Katie Leung (Ash), Melinda Page Hamilton (Ella Fisher), Chris Coy (Jasper Baker), Alex Hernandez (Tommy Constantine), Julian Moore-Cook (Ossian), Adelind Horan (Billy Ann Baker), Austin Rising (Leon), Eli Goree (Conner Penske), Charlotte Riley (Aelita West), Alexandra Billings (Inspector Ainsley Lowbeer); produzione: Kilter Films, Copperheart Entertainment, Amazon Studios, Warner Bros. Television; origine: USA 2022; durata: 55’-73’; episodi cult: 2×08, 6×08, 8×08.

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