A proposito de Il crogiuolo di Arthur Miller

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Il crogiuolo di Arthur Miller arriva al Teatro Quirino di Roma e lo porta il regista Filippo Dini in versione rock, quindi duro, penetrante, deciso. Lo spettacolo ne guadagna in solidità e forza, è realmente godibile, pecca tuttavia in originalità perché il rock è rock, e il rock condivide con Dio un pezzo di immortalità e con gli anni ’60 l’eterna maledetta gioventù. Ma per quanto riguarda l’eterna freschezza, be’, quella è un’altra cosa: il mondo va avanti, non aspetta nessuno, nemmeno il pugno duro di una chitarra elettrica. Dopotutto, come diceva Jim Morrison

This is the end, beautiful friend

E ogni fine è circoscritta a un proprio tempo, anche quella del rock su un palco teatrale contemporaneo.

Abigail Williams è la figlia del pastore e dal pastore è stata scoperta nel mezzo del bosco a ballare insieme ad altre ragazze. Solo ballare? Ma sì, in fondo sono solo adolescenti. Adolescenti però in una società come quella puritana che è la cosa più simile a una teocrazia e per cui la moralità viene prima di ogni altra cosa, e quindi ballato soltanto, be’, non possono averlo fatto. Devono aver evocato gli spiriti e con loro il diavolo. Solo così si spiegherebbe il comportamento di alcune di loro nei giorni seguenti: fisse sul letto, sonnambule, prese da scatti. Indemoniante, insomma. La gente accorre nella casa del pastore per osservare il maleficio, compreso un contadino, John Proctor.

John abita a sette miglia da Salem, ma è lì per queste adolescenti stregate, per vederle. E una di loro vuole vedere lui. Abigail stessa, con cui l’uomo ha avuto una storia adultera. Sono ormai passati 7 mesi, John ha dimenticato, Abigail no, e non vuole che nemmeno l’amato dimentichi. Con parole dolci se si può, con parole false se è necessario. La vendetta di una adolescente, tanto è sufficiente perché l’ingranaggio puritano s’inceppi: la moralità chiama in causa il diavolo per spiegarsi l’anomalia e chiunque abbia avuto rapporti con il diavolo deve scegliere: o si è santi o si è streghe. E se si è streghe il braccio della legge si fa cappio. E così il mondo si divide tra coloro che confessano di aver visto il diavolo per accusare e coloro che confessano di averlo visto per salvarsi. Con una terza categoria: coloro che non cedono per salvare la cosa più importante. Se non la propria anima, almeno il proprio nome.

Arthur Miller scrisse Il crogiuolo nel ’53 per denunciare attraverso il teatro una pratica comune negli Usa del tempo. E non si parla del desiderio irrefrenabile di portare giustizia nel mondo bensì della sistematica denuncia dei comunisti. Chiamasi maccartismo. Miller lo fece al modo dei grandi autori, ricordando all’America tutta che complicare le cose è nel loro DNA di nazione, soprattutto per quanto riguarda il trattamento della paura dell’ignoto e la soluzione da trovarsi. Nel 1692, a Salem, la paura era quella del diavolo, la complicazione è stata la caccia alle streghe e la soluzione l’impiccagione di diciannove persone. E si aggiunga anche uno schiacciato a morte. Nel ’53 il nuovo diavolo era il comunismo e la delazione andò così a sprecarsi. È però importante chiedersi quale fu

La natura essenziale di uno dei più terribili capitoli della storia umana.

E la natura essenziale è presto detta. Né divina, né diabolica, né politica ma splendidamente umana. Anzi, privata.

È infatti meglio non confondere il divino con l’umano. Un velo nero spesso come i mantelli puritani non difende l’uomo dal freddo, protegge invero l’ipocrisia permettendo che essa si auto-alimenti. È questione di un episodio perché la società rimanga incastrata nel marchingegno che lei stessa ha costruito e non riesca a più a uscirne. Nemmeno voglia. E chiamare di mezzo il divino o il bene comune per giustificare il comportamento umano è dopotutto così facile. Ma, divino o umano che sia, a ognuno i propri poteri, a ognuno i propri diritti e doveri. Soprattutto, a ognuno le proprie colpe.

Siamo quelli che siamo sempre stati, solo che ora ci vediamo per come simo sempre stati. Uomini nudi al vento di Dio.

Il crogiuolo di Filippo Dini coglie il nocciolo della lezione di Miller e propone un ottimo e solido lavoro. Con un buon cast, Dini mette in scena uno spettacolo efficace che non osa ma si cala in una salsa rock che lo rende impattante e pugnace. I quattro atti si alternando con lo scomporsi e ricomporsi di una scenografia poderosa, mentre i personaggi indossano abiti misti delle due epoche, fine 1600 e metà Novecento, estendendo il discorso all’Umano tutto. Scandito dalle celeberrime note di The End, Smoking in the water, Russians, House of the Rising Sun, Inno americano, tra atti più riusciti e altri meno, lo spettacolo trascina lo spettatore fine alla fine, quando tra le tante confessioni, una sola è quella che importa e non riguarda sacrifici vari, reali o finti, dovuti al diavolo, piuttosto il sacrificio di se stessi. Forse si è in tempo per la confessione, forse è tardi, alla fine però la bandiera americana si tende nella sua gravità e sorge un nuovo sole sul solito mondo. Né divino né diabolico, così solitamente e impietosamente umano.

Fino al 27 novembre al Teatro Quirino, Roma


Il crogiuolo di Arthur Millerregia: Filippo Dini; traduzione: Masolino d’Amico; scene: Nicolas Bovey; costumi: Alessio Rosati; luci: Pasquale Mari; musiche: Aleph Viola; collaborazione coreografica: Caterina Basso; aiuto regia: Carlo Orlando; interpreti: Virginia Campolucci, Gloria Carovana, Pierluigi Corallo, Gennaro Di Biase, Andrea Di Casa, Didì Garbaccio Bogin, Fatou Malsert, Manuela Mandracchia, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Valentina Spaletta Tavella, Caterina Tieghi, Aleph Viola.

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