Tu gli dici che il mondo è marcio, e loro ti premiano.
Astratti furori diceva Vittorini in Conversazione in Sicilia parlando di un senso di impotenza, appunto, furioso nei confronti della deriva del genere umano, astratte amarezze si può dire di Interno Bernhard richiamando un senso di impotenza invece amaro verso l’umano tutto. Perché Bernhard è questo: pensiero ostile che attira, risucchia ciò che lo circonda sino a prosciugarlo. È quindi materia negativa nella quale la mente rischia di rimanere intrappolata, portata a fondo se il tocco delle orecchie si protende oltre il consigliato. Andrea Baracco si trova così a gestire il pensiero di Bernhard come si manovra un’arma pericolosa, lo trasforma in due lunghi monologhi neri e contagiosi e noi spettatori ne usciamo con la sensazione di essere stati mancati per poco dalla mano della distruzione. Siamo stati sfiorati, ma il Mondo intorno è stato centrato in pieno:
Le favole sono finite. L’Europa, la favola più bella, è finita.
Si possono solo raccogliere i cocci, e tocca a noi farlo. Guardiamoci però le spalle.
Un vecchio intellettuale non esce di casa, anzi, non si alza dalla sedia. Non ne ha la possibilità, sostiene di essere disabile. Dove non arrivano le gambe, tuttavia arrivano le parole e sono un mare di parole crudeli rivolte alla moglie. Dopotutto, è agitato. Quello non è un giorno come un altro, riceverà una delegazione ufficiale che gli consegnerà la laurea honoris causa per aver scritto un trattato su come riformare il mondo. Eppure, il riconoscimento non è altro che l’ennesima conferma che nessuno quel saggio lo ha letto, o peggio, lo ha compreso. Tra le pagine si sostiene infatti che per migliorare il mondo c’è solo una soluzione: eliminare gli uomini dalla faccia della Terra. Eppure
Mi premiano. Hai capito? Premiano un misantropo.
Bernhard Minetti, attore tedesco del secolo scorso, amico di Thomas Bernhard, si ritrova nella hall di un hotel. È capodanno, e sta aspettando di incontrare il direttore del teatro della città. Nella valigia ha la maschera del Re Lear, lo impersonerà per l’ultima volta dopo che per trent’anni lo ha interpretato allo specchio, in camera, in esilio dal teatro drammatico. Inizia un flusso di coscienza con giudizi spietati verso una società allo sbando, mentre intorno a lui il paesaggio si fa sempre più inquietante. Fantocci mascherati da coniglio compaiono qua e là, il direttore è sempre più in ritardo, la tempesta che batte ai vetri potrebbe d’un tratto penetrare e inondare il mondo interno, quello dei pensieri. Sarebbe la fine, e come riparo dal mondo non si avrebbero scudi o corazze, ma solo una maschera. Appunto, quella del Re Lear.
Per chi fosse a digiuno di letteratura, Bernhard è un Kafka senza l’impiccio del dubbio. Laddove Kafka cerca di razionalizzare i sogni scrivendo l’assurdo, Bernhard applica la razionalità agli incubi e scrive di negatività. Le parole sue formano un flusso di fiume nero che non si modifica nell’andare né si concede di tentennare, per lui non c’è spazio per il dubbio, il monologo mira dritto per dritto al baratro e si porta con sé coloro che vi si oppongono o sono reticenti. Dopotutto, Bernhard è un autore che ha attraversato il Secolo Breve e
La Storia ha uno stomaco di ferro, si è mangiata tutto l’orrore.
e lui la Storia, quella con S maiuscola come quella con la s minuscola e quindi personale, non l’ha mai amata. Malato per buona parte della vita, insofferente delle istituzioni, innamorato (platonicamente o meno) di una donna assai più anziana, il suo pensiero ha assorbito il malessere di ogni incidente e lo ha restituito a parole malsane, corrosive e gravi. E comunque anche nella malvagità c’è bellezza.
Andrea Baracco parte da quella bellezza e la mette in bocca a Roberto Sturno e Glauco Mauri. Efficaci entrambi, splendido il secondo, di quello splendore per cui lo si è ascoltato per un’ora e lo si potrebbe ascoltare un’altra senza esserne comunque sazi. Dietro di loro si costruisce una scenografia grigia, scossa dal suono più sterile, quello dell’orologio. La bontà della scenografia è allora nell’imponenza che rappresenta, nella fragilità che nasconde: è sufficiente un tocco perché il vuoto dietro i muri soverchi la forza degli stessi e quel vuoto si porti con sé incubi in carne e maschera, fantocci di negatività che si prendono il palcoscenico e… dove vanno?
Interno Bernhard è insomma uno spettacolo bello, non facile quanto interessante. Né risate né semplici parole, solo duro e crudo pensiero di un autore che non metteva filtri alla sua vista né accompagnava le proprie opere con antidoti. Il veleno, per essere apprezzato, doveva essere sorbito senza il salvagente della salvezza ultima o del colpo di mano dato dalla speranza. No, in Bernhard si precipita in direzione del fondo e lo spettatore non può rimanere indifferente. Certo, può voltare le spalle, far finta di non udire, ma il limite del palco non è garanzia, quello del sipario nemmeno. Quegli incubi di carne e maschera che si sono mangiati un Secolo e un Continente vanno oltre, e vengono a prendere proprio te.
Spettacolo in scena fino al 29 gennaio al Teatro Argentina, Roma.
Interno Bernhard – Il riformatore del mondo/Minetti. Ritratto di un artista da vecchio – regia: Andrea Baracco; autore: Thomas Bernhard; scene e costumi: Marta Crisolini Malatesta; musiche: Giacomo Vezzani, Vanja Sturno; luci: Umile Vainieri; interpreti: Glauco Mauri, Roberto Sturno, Stefania Micheli, Federico Brugnone, Zoe Zolferino, Giuliano Bruzzese; produzione: Compagnia Mauri Sturno.