Boersch, Alsazia, 1967. Ci troviamo nel bel mezzo della tanto vituperata province francese, sorta di piccolo mondo antico fedele ai suoi riti d’ordinanza, alle sue patates, al suo vernacolare spiccio, alle sue mogli robuste ed energiche, alle sue campagne incolte che sembrano estendersi ovunque. La nuova avventura cinematografica di Martin Provost inizia proprio da qui, e in particolare dall’universo in miniatura dei coniugi Paulette e Robert Van Der Beck (un’instabile Juliette Binoche e un François Berléand dai tratti sgradevolmente buffoneschi). Al centro di questo mappamondo ingiallito sorge lo scalcagnato collegio per future femmes de ménage che i due attempati sposini tentano di mantenere a galla, sfidando le minacciose tempeste parigine di fine anni ‘60. Non serve un antropologo per cogliere l’esplicito sarcasmo a cui il titolo della pellicola ci prepara: reduci dalla ridondanza retorica tipica del ventunesimo secolo, La brava moglie (La bonne épouse) ci appare come un concentrato di luoghi comuni, ma trasposti in un passato ancora tutto da scrivere. Se poi al calderone aggiungiamo una suora-virago (Noémie Lvovski) e una cognata dalla fisionomia eccentrica (Yolande Moreau), il quadro di genere può dirsi completo.
In tempi di crisi, due fili bastano per cucire un intero corredo (la carta vincente di ogni brava massaia). Urge dimostrare d’esser casalinghe provette: così, da due figurine riusciamo a mettere in piedi l’eterno presepe del patriarcato borghese. Che comprende una Paulette nevrotica e frustrata, un Robert dedito al volgare culto delle corse e del gentil sesso, nonché una schiera di ragazzine esauste su cui la generazione precedente cala la propria scure non tanto per ideologia, quanto per abitudine. Ma niente paura: la storia sta per cambiare (davvero?) e Parigi richiamerà a sé i suoi discepoli, proclamandosi monarca assoluto di un intero panorama culturale – un’abitudine, questa, vecchia di secoli.
Tuttavia, Provost non è così superficiale e ci conosce abbastanza bene per anticipare e stravolgere le nostre aspettative, lasciandoci liberi di trarre conclusioni affrettate solo per poi bacchettarci. Dopo il primo quarto d’ora, infatti, i personaggi smettono di essere personaggi e diventano persone, sviluppando l’indipendenza necessaria per emanciparsi dalla cinepresa. Dietro ai pizzi e ai merletti, dietro al pollo alla cacciatora e all’immacolato servizio da the si nasconde ben altro – lo si nota dai gesti frettolosi e impacciati con cui Paulette mostra alle sue allieve come non comportarsi. Ad esempio, contando le zollette di zucchero e levando in aria le tazzine mentre il marito accumula debiti su debiti. L’effetto è tragicomico e abbiamo l’impressione che, in fondo, nemmeno la nostra perfetta fantesca ci creda più tanto.
L’improvvisa e grottesca morte di Robert, con cui si conclude la prima parabola del film, è la classica goccia che fa traboccare il vaso: per la Binoche rappresenterà una svolta, per noi un’illuminazione. Da qui in avanti, il regista cala un velo d’ombra sul palcoscenico, spingendoci ad intuire (ma non comprendere) i fantasmi che si nascondono dietro alle velette e alle camicie inamidate. Il ricongiungimento fra la direttrice ormai vedova e il suo antico amore di gioventù (Edouard Baer) schiude nuove vie interpretative e apre lo sguardo su paesaggi che, nella rievocazione nostalgica, tendono ad essere rimossi dalla memoria collettiva. Così, quell’odiosa intercapedine di bei vestiti e di elettrodomestici d’avanguardia, costruita al termine (e per il termine) del conflitto, finisce per rivelare la sua ormai nota inconsistenza. Sotto questa luce, i protagonisti ci appaiono diversi rispetto alle mascherine incontrate nei fotogrammi iniziali e i carnefici si trasformano in vittime – una costellazione, per quanto ovvia, decisamente più verosimile di quanto non ci aspettassimo.
L’epilogo, purtroppo, non tiene il passo e accelera vertiginosamente verso la precettistica sovrabbondante che tanto detestiamo in Paulette e nei suoi insegnamenti. Forse si tratta di deformazione professionale. La lezione, per quanto giusta, risulta sgradevole e la tentazione (fra l’altro pericolosissima) è quella di comportarci come Marie-Thèrese, la suora combattente, ex membro della Resistenza francese e novella aguzzina posta alla guardia dell’istituto. Sarebbe interessante, invece di addestrare il pubblico alla vita civile perché sì, scoprire cosa si cela dietro al mascolino dispotismo della nostra sposa del Signore: un uomo in saio e velo nero? Una persecutrice? O una perseguitata? O entrambe? Magari – udite udite! – dietro alla tonaca (e non solo alla sua) si nasconde una persona e, con essa, la sua storia.
Dal 24 giugno in sala
Cast & Credits
La brava moglie – Regia: Martin Provost; sceneggiatura: Martin Provost, Séverine Werba; fotografia: Guillaume Schiffman; montaggio: Albertine Lastera; interpreti: Juliette Binoche (Paulette Van der Beck), Yolande Moreau (Gilberte Van der Beck), Noémie Lvovsky (Marie-Thérèse), Edouard Baer (André Grunvald), François Berléand (Robert Van der Beck), Marie Zabukovec (Annie Fuchs), Anamaria Vartolomei (Albane Des-deux-Ponts), Lily Taieb (Yvette Ziegler), Pauline Briand (Corinne Schwartz), Armelle (Christiane Rougemont); produzione: Les Films du Kiosque; origine: Francia 2020; durata: 108’; distribuzione: Movies Inspired.