Bisogna tornare vent’anni indietro per rintracciare la fase migliore della produzione del regista spagnolo Fernando Trueba che adesso ha 66 anni e prosegue con una certa continuità (diciamo ogni tre/quattro anni) a girare film. Prima dell’attuale, si era visto a Berlino nel 2017 La reina de España, il sequel di uno delle sue pellicole più famose, ovvero La niña de tus ojos che risale appunto agli anni ’90 e che insieme a Belle epoque (vincitrice dell’Oscar come miglior film straniero nel 1993) è da considerarsi uno dei suoi maggiori successi.
Quattro anni dopo, Trueba lascia la Spagna, lascia l’Europa e va a girare in Colombia, prendendosi l’ennesimo premio Goya, ma stavolta per la categoria “Mejor película iberoamericana”. Il film doveva uscire a Cannes nel 2020, è poi passato a San Sebástian e quindi alla Festa del Cinema di Roma. Un anno dopo Andrea Occhipinti della Lucky Red ha deciso di portarlo in Italia, commettendo – ci sia consentito dirlo – un imperdonabile errore riguardo al titolo: un titolo vago e inutile da un lato e la cancellazione di un titolo splendido in spagnolo, splendido non foss’altro per il fatto che esso è la citazione di un verso di Jorge Luis Borges, scusate se è poco.
Il titolo originale è El olvido que seremos, come dire “l’oblio che saremo”, una vertiginosa riflessione sulla finitezza umana che viene esplicitata nella parte finale del film tramite la citazione dell’intero meraviglioso sonetto di Borges (basterebbe questo a dare un senso alla visione del film). La vertigine metafisica si innesta in realtà in un testo i molto radicato nell’hic et nunc, in un film a tratti molto politico, secondo modalità che ora ricordano Ken Loach ora certi aspetti de La meglio gioventù, e va detto che nessuna di queste somiglianze è da leggersi come un complimento.
Al centro del film, tratto da un memoir di Héctor Abad Faciolince, è la vicenda del padre dello scrittore, un conosciuto e ammirato professore universitario e attivista colombiano che finirà ucciso dai colpi di pistola delle bande paramilitari e fasciste che imperversavano a Medellin negli anni ’80 mettendo a tacere tutti coloro che osassero farsi portavoce di semplici istanze di progresso o anche di sola informazione. Il protagonista che si chiama come il figlio si limita nei suoi frequenti interventi pubblici dalle aule universitarie, nei più svariati consessi e nei media a mettere il dito nella piaga di una sanità pubblica che versa in condizioni raccapriccianti. Ma basta questo a renderlo personaggio inviso e scomodo alle istituzioni. Forse non solo questo: Héctor Abad fa anche chiara professione di ateismo, ciò che nella religiosissima Colombia non va affatto bene.
Il film è appunto raccontato dalla prospettiva del figlio ammirato e devoto e si articola su due prospettive temporali fra loro interconnesse, che, almeno in parte, danno vita a due film diversi, anche sul piano formale, poiché l’una è a colori e l’altra è in bianco e nero; due film formalmente diversi ma in fondo accomunati da una impostazione sostanzialmente melodrammatica, accentuata dall’uso della musica, dei primi piani e anche da un reiterato riferimento a un maestro del melodramma ossia Luchino Visconti, di cui si ricordano in almeno due passaggi le sequenze finali di Morte a Venezia (1971).
Si parte a metà della storia (1983), si torna indietro (1971), a un certo punto ci si riconnette all’inizio e poi si va avanti verso l’inesorabile fine. I luoghi sono appunto Medellin e nella parte iniziale e nella breve sequenza di riconnessione Torino, dove il figlio è andato a studiare. Le brevi parti su Torino e la parte finale sono in bianco in nero che non si può non definire luttuoso e il passato remoto invece è nei colori sgargianti degli anni ’70. La parte in bianco e nero è la parte più politica, la parte a colori è la parte più familiare, in cui viene descritto il clan di Hector Abad, con un nugolo di figlie (una delle quali morirà precocemente per un melanoma), la vecchia nonna, la suora che si occupa dell’educazione religiosa. E appunto il figlio omonimo, unica presenza maschile che vive in una costante ammirazione per il padre, tanto che il libro (e il film) finiscono per diventare un’autentica agiografia di un martire della libertà.
Cast & Credits
El olvido que seremos (La nostra storia) – Regia: Fernando Trueba; sceneggiatura: Fernando Trueba, Héctor Abad Faciolince; fotografia: Sergio Iván Castaño; montaggio: Marta Velasco; musica: Zbigniew Preisner; interpreti: Javier Cámara (Héctor Abad), Nicolás Reyes Cano (Héctor bambino), Juan Pablo Urrego (Héctor), Patricia Tamayo (Cecilia), ; produzione: Caracol Televisions; origine: Colombia 2020; durata: 134’; distribuzione: Lucky Red.