Amazon Prime lo aveva trasmesso già dal gennaio del 2021, ma adesso esce anche in sala, distribuito da BIM, il terzo film della sessantaquattrenne regista di Bristol Phillida Lloyd che nelle due precedenti prove aveva ottenuto notevolissimi successi al botteghino con Mamma mia nel 2008 e The Iron Lady nel 2011. Qui l’anima del progetto è in primo luogo colei che interpreta Sandra, la protagonista, ovvero l’attrice (per lo più teatrale) irlandese Claire Dunne che ha scritto il soggetto e insieme a Malcom Campbell la sceneggiatura.
Un giorno qualcuno forse studierà le caratteristiche tipologiche di certo cinema britannico a cavallo fra gli anni ’80 del 900 e (almeno per il momento) gli anni ’20 del Ventunesimo Secolo e non potrà fare a meno di rilevare nei film di Ken Loach (e solo in seconda battuta di Mike Leigh) una sorta di archetipo al quale un numero davvero significativo di film, direttamente o indirettamente, si richiama. Un archetipo che consta innanzitutto di un’impostazione fortemente realista, un’attenzione spiccata alle dinamiche di genere, classe e razza, un diretto o sottinteso atto di accusa nei confronti delle istituzioni che dal neoliberismo di Margaret Thatcher in avanti non tutelano più il cittadino meno abbiente con problemi di casa, lavoro, salute, un’attenzione particolarmente spiccata nei confronti della working class o meglio di quel che resta della working class, sul piano linguistico una tendenza verso il dialetto, lo slang etc, sul piano del genere un continuo switch fra tragedia e commedia. Poi naturalmente ci sarebbe una seconda categoria di cinema britannico, quello alto borghese-nobiliare e spesso anche con un’impronta fortemente letteraria che Andrew Higson chiamò “Heritage Film” – e ci troviamo a constatare per l’ennesima volta che nel cinema britannico, d’impianto realista, la grande assente è la middle class.
Ciò premesso il film di Phillida Lloyd, La vita che verrà – Herself appartiene al cento per cento alla prima categoria. Siamo a Dublino e Sandra è una madre, la quale, prima che avvenga l’irreparabile, leggasi un femminicidio, compie il grande passo di lasciare il marito che è solito picchiarla con ferocia, una volta almeno anche sotto gli occhi della figlia più piccola che ne esce traumatizzata. Nella fase discendente del film Sandra si sbatte per trovare una casa, in una lista d’attesa che potrebbe durare anni per ottenere un alloggio popolare, finendo poi per abitare sine die in un hotel nel quale tuttavia deve entrare dalla porta di servizio per non confondersi con i più augusti ospiti. L’ ex marito, solo in apparenza pentito, paga gli alimenti e ha diritto di vedere le figlie (ben presto una figlia sola perché l’altra, quella traumatizzata, si rifiuta) una volta a settimana.
Il turning point, ovvero la lenta risalita avviene allorché Sandra comincia a concepire il progetto di costruire una casa con le proprie mani, grazie a un sito apposito, ma ha bisogno di un terreno e della solidarietà di qualcuno che le dia una mano. Dopo qualche impiccio trova l’uno e l’altra, l’uno grazie a una dottoressa reduce da un grave incidente che Sandra ha contribuito, da badante temporanea, a rimettere in piedi – e lei per gratitudine nei suoi confronti e anche nei confronti della madre che anni addietro era stata sua domestica le mette a disposizione il giardino come luogo di costruzione; l’altra, la solidarietà, attraverso l’ausilio di un gruppo assai variegato di individui, giovani e meno giovani, uomini e donne, autoctoni e immigrati e anche un ragazzo affetto da sindrome down, mediamente appartenenti agli strati bassi della popolazione, che cominciano a dedicare alla costruzione della casa tutti i fine settimana, secondo una dinamica qua e là un po’ troppo sdolcinata, in cui tutti ma proprio tutti si vogliono un gran bene, i sociologi tedeschi direbbero la Gemeinschaft (comunità) sconfigge la Gesellschaft (società).
Ma poi, sul finire, la vicenda prende una piega meno divertente che non riveleremo, se non dicendo che ritorna l’antagonista. Ritorna eccome. Siamo in presenza di un film non originalissimo sul piano dello stile e anche sul piano della costellazione fra i personaggi, ma Herself ha il pregio di essere non troppo lungo, di avere un buon ritmo, di giocare su più registri, entrando di fatto a far parte della categoria denominata feel good movies.
In sala dal 17 giugno
La vita che verrà – Herself – Regia: Phillida Lloyd; sceneggiatura: Malcolm Campbell, Clare Dunne; fotografia: Tom Comerford; montaggio: Rebecca Lloyd; musica: Natalie Ann Holt; interpreti: Clare Dunne, Harriet Walter, Conleth Hill, Molly McCann, Ruby Rose O’Hara, Cathy Belton, Rebecca O’Mara, Ericka Roe, Ian Lloyd Anderson, Sean Duggan, Aaron Lockhart, Anita Petry, Dmitry Vinokurov ; produzione:BBC Films, British Film Institute, Element Pictures, Merman Films, Screen Ireland; origine: Irlanda, Gran Bretagna 2020; durata: 97’; distribuzione: Bim.