Le grand Chariot di Philippe Garrel (Premio della regia)

  • Voto
3.5

È un film che si può tranquillamente definire di famiglia e in famiglia quello che ci consegna Philippe Garrel, uno dei grandi registi francesi del periodo della seconda ondata della “Nouvelle Vague” – il suo primo lungometraggio si intitolava Marie pour mémoire e risale al lontano 1967 ma dovrà attendere, dopo un decennio di sperimentazione, il 1982 per raggiungere la notorietà con lo struggente e più narrativo L’Enfant secret. Al Concorso berlinese il Nostro torna con Le grand Chariot, a tre anni di distanza dal precedente Le sel des larmes (Il sale delle lacrime, 2020) – mai uscito nelle sale italiane ma che passerà il prossimo sabato 25 febbraio alle ore 1,45 su Rai Tre, poco dopo che la Berlinale avrà concluso il suo Palmares.

Le sel des larmes - Berlino 2020

Dicevamo di un film altamente familiare, dato che tale componente è estremamente forte, diremmo decisiva, in Le grand Chariot già a partire dal tema che affronta, quello del mondo del teatro dei burattini ai tempi d’oggi. Il padre di Philippe, infatti, Maurice Garrel era un burattinaio della troupe di Gaston Baty e il suo padrino Alain Recoing era il fondatore del “Théâtre aux mains nues” a Parigi. Dunque un’infanzia vissuta e segnata  dal teatro delle marionette.
Ma non è finita dato che bisogna ricordare un altro e altrettanto decisivo aspetto di legami familiari: oltre all’ormai celebre figlio Louis Garrel, nel film recitano anche le altre due figlie, Esther e Léna, mentre sua moglie la regista Caroline Deruas-Garrel – che è entrata nella vita di Philippe dopo suoi dieci anni passati con la cantante Nico – ha scritto il film insieme ad Arlette Langmann e al sommo sceneggiatore francese Jean-Claude Carrière, morto nel febbraio 2021 e con il quale Garrel ha fatto quattro film.
Entriamo però finalmente nel merito di che cosa tratta Le grand Chariot: Louis (Louis Garrel), Martha (Esther Garrel) e Lena (Lena Garrel) sono tre fratelli che costituiscono l’ultima generazione di una famiglia di burattinai illuminata dalla passione dal padre e dei suoi testi. Sono dei veri maghi degli spettacoli e delle mani nell’uso delle marionette, ma riescono a malapena a sbarcare il lunario, lavorando soprattutto per amore del loro mestiere o meglio della loro arte scenica. Anche la nonna, una vecchia compagna comunista contribuisce, non solo come sarta ma anche come depositaria di ricordi e saggezza alla vita della troupe. Ma le morti del padre e della nonna (al lei viene tolta la croce sulla bara in onore delle sue convinzioni atee) e gli eventi della vita metteranno a dura prova il desiderio di andare avanti in quel mestiere – tra l’altro ai personaggi già descritti si aggiunge quello dell’inquieto Pieter (Damien Mongin), prima loro aiutante a teatro poi pittore sempre insoddisfatto della suo lavoro sino a sfiorare la pazzia. D’altronde come si dice a un certo punto nel film il tempo di Hans Wurst – il celebre personaggio comico del teatro popolare tedesco, un po’ l’equivalente del nostro Pulcinella – ormai è passato e ci vogliono dei nuovi testi e non più quelli del padre per sopravvivere e andare avanti nell’attuale mondo dello spettacolo che ormai ha intrapreso vie tanto diverse.
Partendo da questo struggente sentimento di tenere viva la memoria di una tipologia d’intrattenimento artistico in lenta via di estinzione – quella appunto del mondo del teatro di marionette (quelle recitate con le mani, non quelle con i fili) – Philippe Garrel torna ad esplorare temi a lui cari (e legati alla sua formazione nella Nouvelle Vague francese) come, innanzitutto, l’amore (personale ed per l’arte) e i suoi detour, l’amicizia, i lutti, la natura autodistruttiva e maudit dell’ artista ma anche la volontà di andare avanti anche quando tutto sembra perduto.
A tratti tragico, a tratti leggero, insieme tenero e romantico ma anche parecchio nostalgico nei confronti di una epoca diversa d’attuale, Le grand Chariot sarà un film che piacerà soprattutto ai nostri lettori più cinefili, sperando che possa raggiungere anche gli schermi italiani.
Non ci è sembrato, a dir la verità, il film più perfetto di Garrel, ad esempio personalmente preferiamo altre sue prove come, ad esempio, il già ricordato  Le sel des larmes – proprio l’aspetto intimo, autobiografico e personale della storia forse ha costituito un freno psicologico nel raccontare questa metafora dell’evoluzione dell’arte che rappresenta anche al tempo stesso una riflessione un po’ amara sull’evoluzione del cinema in sé e per sé, oggi nell’era del digitale.

D’altronde Garrel, lui stesso gran burattinaio di sé, della sua famiglia e del lavoro di cineasta, rivendica con orgoglio questo legame con il passato: il film è girato in pellicola, in 35 mm ed è fotografato dal grande Renato Berta uno dei maestri della mdp dai tempi della Nouvelle Vague. Come ha raccontato con ironia in conferenza stampa: io odio tablet, digitale, internet, la rivoluzione di Silicon Valley ecc. sono un uomo low-tech.
Altamente consigliato a chi si trova su questa lunghezza d’onda.


Le grand Chariot Regia: Philippe Garrel; sceneggiatura: Jean-Claude Carrière, Arlette Langmann, Philippe Garrel, Caroline Deruas Peano; fotografia: Renato Berta;  montaggio: Yann Dedet; musica: Jean-Louis Aubert;  interpreti: Louis Garrel (Louis), Damien Mongin (Pieter), Esther Garrel (Martha), Lena Garrel (Lena), Francine Bergé (la nonna), Aurélien Recoing (il padre),Mathilde Weil (Hélène), Asma Messaoudene (Laure); produzione: Edouard Weil, Laurine Pelassy per Rectangle Productions; origine: Francia/Svizzera, 2023; durata: 95 minuti.

 

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