Il termine matria fa rima, anche in spagnolo, con patria, e in parte anche quest’ultima rientra difatti nella figura-protagonista del film, Ramona (María Vázquez). “Matria” è l’ultima fatica del regista galiziano Álvaro Gago Diaz che qui ritorna su un progetto già realizzato nel 2017, ovvero un cortometraggio omonimo e del medesimo soggetto che si aggiudicò il primo premio nel 2018 al Sundance Film Festival. Tra l’altro, proprio di recente (soprattutto in ambito letterario italiano, si veda a proposito Dismatria di Igiaba Scego) si è andata a rintracciare la possibilità altra di poter esprimere il concetto di “patria” di fronte all’immane questione non facilmente dipanabile dei nati (e residenti stabilmente nei paesi europei) di seconda generazione di immigrati. Ma più che la diatriba patria-matria, in fondo è poi sempre all’universale parola “madre” che, vedendo quest’opera, le nostre menti come i nostri cuori vanno.
Ramona è madre di una giovane ragazza, Estrella (Soraya Luaces) ormai maggiorenne. Tutta la sua esistenza è come se fosse stata sublimata, si potrebbe dire annullata, sognando di far vivere a sua figlia le condizioni e soprattutto la bellezza della vita che a lei sono state negate. Il difficile qui per tutti noi, come per Ramona, è sempre provare ad avere consapevolezza di quanto le vicissitudini che ci vengono incontro dipendano più da noi stessi o dall’esterno, corrispondono più alla nostra interiorità oppure sono iscritte già nel tempo che ci troviamo a vivere, insomma se siamo noi gli attori o invece solo le contro-figure. E anche su tutto questo qualcuno potrebbe dire che in fondo è pochissima cosa preoccuparsene, stare lì a stabilire con precisione dove pende l’ago della bilancia, venendo a convincersi che la questione, qualora avesse senso, non andrebbe certo affrontata polarizzando dialetticamente le due coordinate, bensì ci inviterebbe a vederla dimostrando come noi siamo un tutto fatto di parti (e viceversa). E quindi ciò che si addice più alla nostra natura è semplicemente un crocevia, ad esempio, di dentro-fuori. Ramona non è d’accordo e ci vuole provare a capacitarsi che più a lei le cose vanno male, più andranno bene a Estrella.
E qui il film, che ci ricorda un po’ da un lato, immagini dal mondo di Ken Loach e, dall’altro, dei Fratelli Dardenne, segue le strazianti e faticose giornate di Ramona, divise tra testarde prese di posizioni (che il più delle volte si mostrano in modo evidente quali eccessivamente radicali) e inevitabili solitudini, tra immense prove di vitalità piene di grandi risate e sorrisi e amore incommensurato per sua figlia, che molto probabilmente solo una madre prova. Stupende le scene in cui lei per un attimo (non si sa come in verità) s’acquieta, si ferma e fuma una sigaretta. Il suo sguardo pensante non è mai perso nel nulla, anzi riprogetta sempre nuove possibilità di concreta fatticità. Sul volto lo spettatore s’accorge quanto s’anima uno spettacolo fatto di durezza e dolcezza che Ramona porta sì dentro, ma che a volte emerge fino a dipanarsi sullo schermo. E quasi ci si commuove. Soprattutto di fronte al fatto che tutte le sue ingenuità e spontaneità (come anche le nostre, a volte) non sono fatte in fondo di sbagli. Sono tentativi d’esistenza dove si prova purtroppo a sopravvivere e non a vivere. Si tenta a non voler vedere le cose come veramente poi stanno. E ciò alla fine non può che produrre ancora una volta sbandamenti, di cui la stessa Ramona (e noi con lei) pagherà a caro prezzo il conto. Non vanno via dagli occhi le immagini dell’abbraccio infinito tra madre e figlia sulla porta di casa di quest’ultima.
Se da una parte possono essere lette come una sconfitta definitiva di Ramona, dall’altra (anche per chi scrive) quelle sequenze sanno invece di serenità, di una forma di capitolazione, meglio ancora forse di risarcimento emotivo che ha il sapore dell’indennizzo. Dopo tanto dolore, tanta sofferenza, tanta tribolazione che sembrava infinita ecco la calma, la possibilità di rileggere tutto alla luce di nuove consapevolezze (che, d’accordo, non possono che rimettere nuovamente tutto in discussione) che però fanno intravedere finalmente una vita nuova. Ramona sceglie di prendere l’auto e di partire, adesso, sola. Anche se non sa dove andrà, cosa le riserverà il futuro, ma sa bene che una certa dimensione libera sarà sempre al suo fianco. E non si può più tornare (per fortuna) indietro. Non è Thelma & Louise e tantomeno Bellissima: è Ramona.
“Per me il cinema – dice il regista – oltre ad essere un dispositivo per raccontare storie, serve a catturare un modo di esistere e questo è al centro del film. Ricordo, mentre scrivevo la sceneggiatura, che volevo includere scene che catturassero un modo di intendere la vita molto tipico del luogo in cui abbiamo girato: un contesto che presenta anche circostanze complesse per il personaggio principale e determina il suo stato vitale, il suo stato di consapevolezza. Il film propone come trovare le crepe in queste circostanze affinché inizi il viaggio interiore della protagonista”.
Ecco: Matria finisce lì dove Ramona inizia a pensare un po’ a sé, a fare quello che non le è mai capitato prima, a iniziare a dialogare con la propria interiorità. Anche se sarà forse senza sconti, ma sicuramente ne varrà la pena. E, concludendo queste brevi impressioni sul film, è sempre meglio “a modo mio”, anche e chissà soprattutto per poter poi autenticamente dire “quel che sono l’ho voluto io”.
Matria – Regia e sceneggiatura: Álvaro Gago Diaz; fotografia: Lucía C. Pan; montaggio: Ricardo Saraiva; scenografia: Melania Freire; musica: Patricia Cadaveira, Marcel Pascual; interpreti: María Vázquez, Santi Prego, Soraya Luaces, E.R. Cunha aka Tatán, Susana Sampedro; produttore: Daniel Froiz, María Zamora, Stefan Schmitz, Mireia Graell Vivancos per Matriuska Producciones, S.L, Avalon Producciones, Elastica Films, Ringo Media; origine: Spagna, 2023; Durata: 99 minuti.