I cinque film di Pedro Almodovar che sono tornati in sala per iniziativa di CG ENTERTAINMENT a partire dallo scorso 15 giugno, ciascuno ridigitalizzato e con una nuova, rielaborata locandina, vengono proiettati nel solco di una (ri)visione sotto il segno di un inequivocabile titolo, “La forma del desiderio“. O forse sarebbe stato ancora più specifico chiamare questo ciclo “Come prende forma il desiderio”, visto che non è certo casuale la scelta di opere appartenenti alla prima parte del mondo-cinema ancora in costruzione e in definizione di Pedro, in quella esplosiva fase di transizione tra i primi, dissacranti e liberatori esperimenti sulle rovine ancora fumanti e sanguinanti della Spagna post franchista e la consacrazione internazionale, con un sempre più dichiarato e spassionato sentimento amoroso verso le sfaccettate declinazioni autoriali del genere da parte del cinema americano ed europeo (in primis la forma commedia e la forma melodramma).
Se si seguisse l’ordine cronologico, uno dei possibili percorsi offerti da questa rassegna, si dovrebbe cominciare con L’indiscreto fascino del peccato (1983), e proseguire con Che ho fatto io per meritare questo? (1984), La legge del desiderio (1987), Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), fino ad arrivare a Tacchi a spillo (1992). In effetti dopo questi titoli, prima dell’exploit-apoteosi di un immaginario sempre più esteso e sempre più disponibile ad essere identificato e codificato, sintesi del nutrimento delle proprie radici colte e pop (Tutto su mia madre, consacrato pure dal laico culto-sistema degli Oscar) c’erano state tre opere di mezzo- Kika, un corpo in prestito, Il fiore del mio segreto e Carne tremula – tra le più teoriche e astratte, pur in un costante ancoraggio all’unica realtà possibile del desiderio, quella dei corpi: la messa a tema da parte di quei tre film dell’ossessione voyeuristica in tutte le direzioni e compulsioni (tra le frammentazioni psicotiche e le geometrie parossistiche del cinema bunueliano e la deriva scopica e abusante della nascente reality-tv) affondava comunque nella carne caldissima e pulsante dei titoli anni ‘80/90 ora riproposti.
L’ottica è già deformata nel guardare attraverso il buco della serratura del convento capovolto in dopata Babilonia del vizio ne L’ indiscreto fascino del peccato: lo sconcerto e lo scarto tra sentire e percepire provengono dallo straniante divertimento che suscita vedere delle suore impegnate a farsi di eroina, spacciare droga e intrecciare relazioni omoerotiche, in un alternarsi di grottesco allucinato e spurio melò del limite e della mancanza (la spregiudicata Madre superiora che perde l’amore per la cantante di night club tossicodipendente in fuga); un tarlo di inquietudine ed eccesso che penetra anche nel contesto domestico-familiare (Che ho fatto io per meritare questo?) e ne ribalta il significato, a cominciare dall’esasperazione degli elementi narrativi, una drammaturgia di stratificazioni e svolte: la vita della disperata casalinga proletaria Gloria (con gli occhi sgranati da tragicommedia busterkeatoniana di Carmen Maura, una delle chicas predilette da Almodovar nel corso del tempo) è la rivisitazione punk e acida di una schnitzleriana ronde di incontri e incidenti, sotto il peso, alleggerito da un’ ironia lunare e surreale , della nevrosi esplosa in tutti i versi possibili della dipendenza e dei suoi strumenti di controllo e coercizione (sesso, denaro, droga).
Specularmente, l’ alter ego di Gloria diventa la Pepa di Donne sull’orlo di una crisi di nervi dove la tensione mortifera e noir viene nuovamente capovolta, in una libera, scatenata riappropriazione di un ritmo quasi da slapstick comedy , nel quale è la vita a imitare spudoratamente il cinema (Pepa e il suo amante che la sta abbandonando si “parlano” ridoppiando Sterling Hayden e Joan Crawford in Johnny Guitar) , come se fossimo in un film di Billy Wilder riletto da John Landis, e ci fosse sempre il mattino successivo per rimettere a posto, dopo il caos esistenziale di un giorno e di una notte.
Ci sono poi le prime fiammante esplicitamente melodrammatiche (si sarebbe potuto inserire forse anche il lucidamente folle e pulsionale Matador, tra i più malati e radicali intrecci eros-thanatos almodovariani), con la pelicula che ha suggerito il parafrasato nome di tutta la rassegna: La legge del desiderio, che non ne include ancora una determinata forma ma ne cerca un’ orizzonte tra un labirinto di specchi e proiezioni: il personaggio principale è quello di un regista (come lo sarà poi in altri significativi film successivi) schiacciato tra l’ineluttabile succedersi degli eventi, scatenati proprio dalle dinamiche del desiderio, e la più logorante delle manie, quella del controllo; il bisogno di dover trasformare qualsiasi soggetto nel prolungamento del proprio immaginario. E l’omosessualità dei personaggi è già affrontata da Almodovar nei termini di una traslazione della propria biografia, nel senso in cui poteva intenderla anche Fassbinder: per potersi esprimere anche in una chiave universale, simbolica, metacinematografica bisogna raccontare quello che ci appartiene profondamente, che conosciamo , di cui abbiamo fatto esperienza molto da vicino e siamo in grado di elaborare.
Forse per questo arriva più raggelato e concettuale Tacchi a spillo, programmaticamente mutante nel fare di un personaggio en travesti giudice e drag queen l’ago della bilancia tra la legge/forma e la trasgressione/trasformazione, anche nei ruoli precostituiti: chi è la madre e chi la figlia tra Becky , diva narcisista ed egoriferita, capace di insospettabili slanci di altruismo e Rebecca, cresciuta nel chiaroscuro affettivo della distante genitrice, colta da improvvise esplosioni di crudeltà ? Chi ha generato chi, secondo una delle questioni poste da Ingmar Bergman nel rapporto tra Ingrid Bergman e Liv Ullman in Sinfonia d’autunno? (esplicitamente citato da Rebecca in uno dei dialoghi più intensi e rivelatori con Becky).
Una domanda che rimane nella zona franca del mistero e dell’inesplicabile, e tramuta un nucleo così aggrovigliato in un flusso di rimandi , spostamenti di senso, la passione mortale e insieme generativa che irrompe sulla scena della colpa e delle recriminazione e illumina ogni dettaglio doppio (un paio di orecchini,un paio di scarpe).
Probabilmente nella full immersion a macchia di una mappa desiderante da decifrare più di quello che non si pensi, non è necessario rispettare nessun ordine cronologico, visto che anche le uscite dei singoli film sembrano non seguire questo criterio (la prima uscita a Roma, ad esempio, è stata Tacchi a spillo), ma abbandonarsi alla ricchezza e alla peculiarità estetica e narrativa di una poetica in progress.
Consapevoli che la forma del desiderio è un abbraccio che si spezza e che si ricostituisce in continuazione.