Un giorno bisognerà mettersi al lavoro ad analizzare in dettaglio l’influsso di Rainer Werner Fassbinder sul cinema e non solo sul cinema contemporaneo. Nessun regista tedesco del dopoguerra ha avuto un influsso così importante sia sul piano dei temi che sul piano dello stile. Nessuno ha presentato una così fitta serie di caratteristiche biografiche (l’iperproduttività, l’eccesso nel consumo di alcol, droghe, sonniferi), creative (il teatro, la radio, il cinema), produttive (il suo proprio clan ma anche il rapporto con gli altri autori del nuovo cinema tedesco), intellettuali (il ruolo di Fassbinder come figura pubblica), tali da dare vita a quello che si potrebbe definire un autentico mito Fassbinder. Nessun artista tedesco della seconda metà del ‘900 ha lasciato maggiori tracce, quanto meno a parere di chi scrive – certo, come sempre accade, la morte precoce ci ha messo del suo, ma non si tratta solo di questo, ovviamente.
Peter von Kant il film di François Ozon che, a seguire l’ultimo Mon Crime (2023), arriva in Italia a poco più di un anno di distanza dalla prima mondiale avvenuta in apertura della Berlinale 2022, costituisce un esempio palese di quanto detto poco sopra. La presentazione a Berlino non era stata casuale perché fu proprio a Berlino che RWF presentò – era il 25 giugno 1972 – uno dei suoi film più celebri, più riusciti, più di culto, ossia Die bitteren Tränen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant). E Fassbinder girò il film traendolo dalla propria omonima pièce, allestita a Francoforte un anno prima.
François Ozon ha non da oggi dichiarato la propria ammirazione per il regista tedesco, lo fece per la prima volta 23 anni fa, ossia nel 2000 realizzando un film da un altro precoce lavoro teatrale di RWF, ossia Tropfen auf heisse Steine (Gocce d’acqua su pietre roventi), scritto nel 1966, allestito per la prima volta nel 1985 e appunto trasposto per il cinema nel 2000.
Si può senza timore di smentite affermare che Ozon è da considerarsi come uno dei principali, se non il principale allievo di Fassbinder presente fin dai titoli di testa nei quali spicca la sua inconfondibile fisionomia, convocata, insieme a quella di Hanna Schygulla (che qui recita anche il ruolo della madre del protagonista, mentre nel 1972 interpretava la straordinaria amante della protagonista, all’epoca recitata magistralmente da Margit Carstensen), a chiudere pure i titoli di coda, grazie a un’ulteriore foto d’epoca. Insomma un film che, in prima battuta, vuole essere un esplicito omaggio, dunque.

L’operazione, sostanzialmente triplice, compiuta da François Ozon, è molto, forse qua e là un po’ troppo cinefila e interpella soprattutto (a tratti quasi esclusivamente) chi conosca vita e opera del suo regista /beniamino.
Si tratta di un’operazione triplice perché in primo luogo il regista francese sembrerebbe, fin dal titolo, volersi limitare a coniugare al maschile l’opera teatrale e cinematografica fassbinderiana, trasformando in termini di genere la vicenda di amore, dipendenza, orgoglio e possesso che nel film originale veniva declinata al femminile.
Ma nel far questo – in secondo luogo – Ozon riporta tuttavia la costellazione patologica della pièce e del film alle sue claustrofobiche origini autobiografiche o, a voler essere più precisi, auto-fictional, se partiamo dal presupposto che Fassbinder intendeva nel suo testo proprio ragionare delle molte e in parte tragiche relazioni che aveva costruito e distrutto intorno a sé. Al fine tuttavia di creare un maggior livello di oggettivazione e straniamento, il regista tedesco aveva per l’appunto trasformato i personaggi maschili in donne, facendo, fra le altre cose, diventare la protagonista una creatrice di moda, anche se i critici seppero in tempo reale leggere il film come un’opera a chiave.
Che cosa decide invece di fare Ozon? Fa diventare (o ritornare) Peter von Kant un regista che, dall’abbigliamento alla fisionomia corpulenta, dagli occhiali a certe inflessioni assomiglia talora smaccatamente a RWF. Insomma decide di azzerare quasi del tutto la componente fictional del suo intertesto.

Basti dire che la giovane di cui Petra von Kant si innamora – nel film originario rispondeva al nome di Karin Thimm, un nome che Fassbinder aveva scelto per prendersi gioco di un’omonima giornalista di un quotidiano monacense – qui è diventata un giovane e si chiama Amir Ben Salem, omonimo di El Hedi Ben Salem, l’attore e amante di RWF (è stato l’immigrato protagonista del celebre La paura mangia l’anima, 1974).
In terzo luogo Ozon tratta l’opera di Fassbinder alla stregua di un enorme macrotesto: Isabelle Adjani che interpreta la diva cinematografica Sidonie canta in tedesco la stessa canzone che Jeanne Moreau cantava in inglese in Querelle, la scena in cui vediamo Peter von Kant seminudo ricorda molto da vicino l’episodio fassbinderiano di Germania in Autunno, poi ci sono citazioni da Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte) e infine, come detto, c’è Hanna Schygulla, che, diciamolo pure, ben poco aggiunge alla recitazione in larga parte di buon livello, fra cui spicca senz’altro Denis Ménochet nel ruolo eponimo.
Siamo in presenza di un’operazione, a nostro avviso, molto cool e postmoderna, compiuta da un regista comunque di grande livello. Sarebbe stato meglio a quel punto avere più coraggio e provare a fare un biopic, almeno secondo noi. Ma ci aveva già pensato un altro regista cresciuto alla scuola di Fassbinder, ovvero Oskar Roehler che nel 2020 aveva girato l’ottimo Enfant terrible (2020).
In sala dal 18 maggio
Cast & Credits
Peter von Kant – regia, sceneggiatura: François Ozon liberamente tratto da Die bitteren Tränen der Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder; fotografia: Manu Dacosse; montaggio: Laure Gardette; interpreti: Denis Ménochet (Peter von Kant), Isabelle Adjani (Sidonie), Khalil Gharbia (Amir), Hanna Schygulla (Rosemarie), Stéfan Crépon (Karl), Aminthe Audiard (Gabrielle); produzione: FOZ, Parigi; origine: Francia; durata: 84 minuti; distribuzione: Academy Two.