Non c’è un inizio e non c’è una fine in Profeti, altra impervia e non risolta incursione di Alessio Cremonini dentro una storia che parla di prigionia, privazione e coercizione, un’esperienza radicale che viene presentata nel momento di una possibile svolta (la protagonista è una giornalista corrispondente di guerra italiana rapita in Siria dall’Isis assieme alla sua troupe) e si conclude in un altro smarrimento (che va sensorialmente visto e ascoltato e non può essere raccontato).
Già nel 2018 con Sulla mia pelle, la sua opera prima, il regista romano aveva suscitato una vivida e non retorica emozione per la forza asciutta e la narrazione concisa con cui ricostruiva la vicenda di Stefano Cucchi: una storia di malagiustizia, malasanità e malaciviltà segnata sul corpo performante e scavato di Alessandro Borghi, che restituiva al vero Cucchi, vittima della prepotenza e del pregiudizio delle istituzioni , una voce e uno sguardo intrisi di pietas e dignità (e il film contribuì a risvegliare un attenzione sul caso e a dare un ulteriore spinta propulsiva alla battaglia della determinata sorella Ilaria, fino all’individuazione dei responsabili di una morte causata dalla violenza gratuita di alcuni rappresentati delle forze dell’ordine).
Con questa nuova regia , pur rimanendo focalizzato sulla realtà, Cremonini travalica la dimensione temporale della strettissima attualità e tocca , o prova a toccare, più esplicitamente corde esistenziali e riflessioni etiche sulla costruzione della propria identità, determinata da diversi fattori, in particolare la relazione con il contesto sociale e culturale nel quale veniamo al mondo e cresciamo. La questione è ancora più specifica se riguarda il rapporto tra le donne e la religione, e il generico titolo, ovvero il maschile plurale della figura che possiede e professa la parola divina (in questo caso quella dell’Islam più estremista e oltranzista), introduce già un elemento di diseguaglianza e sottomissione in un’unica, possibile declinazione di genere: è proprio la parola di Allah, il profeta dei profeti, e l’interpretazione così punitiva e crudele rispetto alle donne che ne fanno alcuni musulmani, ad essere argomento di confronto, incomprensione, insofferenza e al tempo stesso di una quasi inaudita complicità tra Sara, la giornalista sequestrata, e Nur, moglie di un mujaheddin (i combattenti contro i traditori di Dio): quest’ultima trattiene Sara, definendola paradossalmente sua “ospite”, in una casa minacciata dai notturni bombardamenti messi in atto dagli eserciti degli infedeli nemici occidentali. In questo dialogo si confrontano non solo due concezioni e due pratiche di vita, ma anche le conseguenze di scelte opposte e speculari, da un punto di partenza in realtà non così distante: Nur infatti è cresciuta da occidentale (in privato continua a portare i pantaloni e parla fluentemente l’inglese) con i genitori espatriati a Londra e solo successivamente li ha rinnegati riconoscendosi in una radicale lettura del Corano. Ed è qui che emerge uno schematismo un po’ didascalico ed esplicativo: da una parte la rinuncia della libertà individuale e il totale asservimento della donne, in particolate quelle militanti nell’Isis, che include l’appartenenza ad una comunità con un ruolo preciso, funzionale alla gerarchica e patriarcale organizzazione maschile; dall’altra la volontà di autodeterminazione e affermazione della giornalista europea, che esclude non solo qualsiasi forma di culto religioso ma mette in secondo piano anche il desiderio di stabilire legami affettivi continuativi, muovendosi rispetto al suo lavoro di reporter sull’opaco confine di un sentimento tra risolutezza e paura, disperazione e indignazione.
Non c’è la vanità narcisistica e autoreferenziale di guerre e tragedie vere messe in scena e mistificate in spot propagandistici di un ego mass mediatico come avveniva per il personaggio di France (Lea Seydoux) nell’omonimo film di Bruno Dumont. Il campo di battaglia sono delle mura che potrebbero crollare da un momento all’altro, attraversate – ed è questa la parte più efficace del film – dalla routine rituale dei gesti compiuti da Nur, come il lavaggio di mani e piedi, la vestizione con lo chador e il posizionamento verso la Mecca per la preghiera rivolta ad Allah. A un certo punto, dalla secchezza descrittiva dello scarno e claustrofobico spazio tempo, comincia il graduale passaggio verso lo sguardo che Sara (interpretata con piglio quasi atonale da Jasmine Trinca, fino al climax di un liberatorio momento di pianto) rivolge a se stessa, riformulandosi e collocandosi nella stessa storia di conversione della sua coinquilina /carceriera.
Uno sradicamento percettivo costruito progressivamente per silenzi e sguardi attraverso le serrature delle porte, le aperture sui muri, gli spiragli di luce che entrano da una finestra; scenari caotici di un mondo messo a ferro e fuoco, intravisti attraverso le fessure di un telo utilizzato per coprire il volto e accrescere l’effetto di spaesamento/straniamento. Probabilmente la capacità di muoversi tra gli interni e gli esterni notte di un tormento mentale ed emotivo che tende a farsi presenza /testimonianza psicotica, non è abbastanza a fuoco da poter generare la suggestione e l’enigma di un altrove; rimane un po’ vaga l’immagine di una terra franca dove avvengono tutte le transizioni e i passaggi, la danger zone senza più coordinate tra la strada abbandonata e la direzione intrapresa (un andirivieni in cui non può esserci come si diceva all’inizio di questo articolo una partenza e un arrivo).
A tratti lo scandaglio dello status di prigioniera di Sara rischia di impantanarsi in uno stallo narrativo, in un procedere per tentativi dove non capiamo più se prevale il peso dell’inerzia dei tempi morti, la capacità di persuasione di Nur o la residua lucidità di una sottile strategia di sopravvivenza. Ma si tratta comunque di un rischio, qualcosa di raro e di ambizioso in un panorama cinematografico nazionale sempre più predisposto alle esigenze, le aspettative e le tempistiche di una fruizione da piattaforma web (un canale produttivo e creativo che forse sta smarrendo i suo tratti più audaci e sperimentali e si sta adagiando su un orizzonte estetico e narrativo riconoscibile e rassicurante, da tv generalista 2.0).
Nel filmare il limite fisico e spaziale, con una qualità di ripresa che ricorda in parte il mood di Private, il folgorante esordio di Saverio Costanzo su un’altra convivenza forzata tra una famiglia palestinese e l’occupante esercito israeliano dalle imprevedibile conseguenze, Alessio Cremonini si confronta ancora con l’essenziale caratteristica della lingua cinema, quella di offrire una prospettiva , di cercare un punto di vista e di coinvolgere lo spettatore in questo processo di costruzione di senso. Gli augureremmo di liberarsi da una certa pesantezza di simboli e spiegazioni, e dalla sensazione percepita di girare talvolta un po’ a vuoto … ma anche qui ci sono istanti in cui vibra sulla nostra pelle la sostanza di cui siamo fatti, che non è più la stessa dei sogni come sosteneva il Prospero shakespeariano de La tempesta; siamo diventati schegge di un immaginario frammentato, tra convulse fughe da reportage in presa diretta e riflessi sovrapponibili di uno specchio che non è più l’imitazione della vita, ma la sua inesorabile disgregazione.
In sala da giovedì 26 gennaio
Profeti – Regia: Alessio Cremonini; Sceneggiatura: Alessio Cremonini, Monica Zapelli; Fotografia: Ramiro Civita; Montaggio: Marco Spoletini; Interpreti: Jasmine Trinca, Isabella Nefar, Ziad Bakri, Omar El Saeed, Mehdi Mescar, Marco Horanieh, Donato Demita; Produzione: Andrea Occhipinti, Olivia Musini, Luca Legnani; Origine: Italia 2023; Durata: 109 minuti; Distribuzione: Lucky Red.