
Il titolo numerico dell’opera numero undici di Silvio Soldini (L’aria serena dell’ovest, 1990, Un’anima divisa in due, 1993, Le acrobate, 1997, Pane e tulipani, 2000, Giorni e nuvole, 2007, Il colore nascosto delle cose, 2017…) nasconde il centro del film: chi sarà il terzo cadavere non riconosciuto del 2019?
All’obitorio ne arrivano tanti, così tanti da avere un sito a loro dedicato, per la ricerca e il riconoscimento di corpi senza nome, senza dati anagrafici, senza identità. L’anonimato tanto fuggito negli anni del benessere e dei vari boom economici mondiali, oggi, negli anni duemila, nella lunga scia pandemica e nel flusso inarrestabile di migrazione da paesi in guerra, diventa epicentro storico di un concetto di morte in divenire.
In 3/19 (cfr. https://close-up.info/3-19-di-silvio-soldini/) il regista milanese assorbe la cupezza opprimente del virus Covid-19 e la introduce con chirurgica iniezione di gelo nel personaggio protagonista Camilla, bella avvocatessa di grido senza sentimenti e senza vita privata. Una esistenza cadenzata da un tran tran di incontri di lavoro, viaggi di lavoro, colleghi di lavoro, viene travolta da un evento imprevisto come un incidente stradale e sconvolge la protagonista fino a un cambiamento nelle prime scene impensabile.
Kasia Smutniak interpreta una donna raggelata da un trauma adolescenziale, madre assente di una giovane brillante della cui presenza in casa quasi non si accorge, che dalla notte alla mattina si cala nella disperata ricerca di identità del ragazzo che, durante il suo incidente notturno sotto la pioggia, ha perso la vita. Il conducente del motorino è scappato urlando Jalla! lasciando il corpo del passeggero e della donna buttata a terra nello scontro. Camilla ha solo una frattura a un braccio, non ha memoria se il semaforo che ha attraversato nel buio fosse verde o rosso (da qui un senso di colpa strisciante), ricorda il dettaglio di calzature rosse sporche di fango del guidatore del veicolo (indizio che la condurrà nei centri per rifugiati, alle mense dei poveri). La sua vita viaggia frenetica nei ritmi del business, non può fermarsi, le cause sono urgenti, gli affari girano (siamo a Milano), viene candidata come migliore avvocatessa del suo campo, l’amante sposato le suggerisce di glissare sul fatto che uno straniero sia morto nel suo incidente, è un caso, lei non ha nulla da recriminarsi, ha fatto il possibile.
Ma il meccanismo è innescato, come una bomba pronta a scoppiare non le lascia modo di concentrarsi in altro che non sia la risoluzione del mistero: chi è il 3/19, il terzo cadavere non riconosciuto del duemila diciannove?
Camilla va al commissariato: nessun indizio, nessuna preoccupazione, capita spesso, nessuno si turba più di tanto. Va all’obitorio: Bruno (Francesco Colella), il direttore, uomo gentile dalla barba incolta e i vestiti slabbrati, le da attenzione, capisce che è la prima volta che mette piede in un luogo del genere, l’accompagna fuori quando ha un mancamento. L’uomo le spiega come funziona, le tempistiche, l’esistenza del sito, la modalità di sepoltura in caso non avvenga un riconoscimento entro un lasso ragionevole di tempo. Camilla ascolta e continua la sua indagine individuale, senza il coinvolgimento delle forze dell’ordine, occupate in casi più gravi.
Il disinteresse delle persone per gli altri (soprattutto coloro che sono diversi), l’alienazione del mondo lavorativo fino a una disumanizzazione generalizzata, la cura verso i bisognosi: questi i temi attorno a cui ruota la trama, a tratti marcatamente dimostrativa, a tratti volutamente portatrice di un messaggio di fratellanza.
In una discussione tra Camilla e Bruno, due opposti che si attraggono, viene pronunciata dall’uomo la frase ‘abbiamo diversi valori’: è una riflessione su due maniere diverse di vivere la propria esistenza, mettendo al centro l’una il successo, l’arricchimento professionale, il denaro, il lusso, l’altro la qualità della vita, lo scambio umano, i momenti di calma, l’accontentarsi di quello che si ha, il coraggio di godere della famiglia e delle relazioni sentimentali. I valori, per qualcuno perduti, per qualcun altro dimenticati, del direttore dell’obitorio – finito a fare quel lavoro tramite concorso statale dopo aver lasciato il lavoro di grafico per superficialità – esulano dal compiacimento esasperato in cui, l’altra parte del mondo, quella di cui fa parte Camilla, si crogiola (la coppia di amanti ha una casa in affitto solo per le sessioni sessuali; la puntata alla piscina termale dell’albergo deluxe in risposta a un apparente tentativo di furto nell’appartamento; le cene, lo champagne). Una Milano non più da bere ma da guardare luccicare: dalla finestra i grattacieli imitano la grande mela, ai piani alti si beve, si litiga, si urla ma non si sporca, non si lava, non si cucina una torta. Piccola pecca: ridondanti e didascaliche le tre sequenze cadenzate dei nonnetti felici visti dalla finestra di fronte (quasi una citazione di Ozpetek) da Camilla, che dentro di sé, specchiandosi, si giudica una genitrice fallita.
Soldini racconta con taglio crepuscolare una storia di redenzione: un transfer psicoanalitico diviene occasione per capire le proprie limitazioni, i fantasmi e gli abbagli della vita che si conduce, che nulla non è definitivo fino a che, per l’appunto, si vive. Finale di parziale, minima speranza.
In sala dall’11 novembre