Diciamolo subito: l’idea di spararsi di domenica mattina un film tedesco di 180 minuti dal titolo Sterben (Morire) non è una di quelle che ti fanno alzare dal letto saltellando pieno di entusiasmo. Del regista Matthias Glasner (1965) avevo visto e recensito un film ben 12 anni fa, s’intitolava Gnade (Grazia), dignitoso per carità, ma la recensione ho dovuto rileggerla per ricordare di che cosa trattasse. Non un film di quelli che ti restano in mente.
Del resto, anche volendo, c’era ben poco da vedere al cinema, perché negli ultimi anni Glasner ha lavorato esclusivamente in TV, polizieschi e serie. Al cinema torna oggi, indotto da una storia che ha una genesi molto molto personale: la morte a breve distanza l’uno dall’altra dei suoi genitori. Anzi non tanto la morte, quanto come dice il titolo il morire, il lento, estenuante processo del morire, il padre di una malattia neuro-vegetativa, la madre di tumore. Come ha detto in conferenza stampa: queste parti del film relative alla morte dei genitori, il regista le ha pari pari tratte dalla propria memoria, non ha dovuto inventare nulla, e si capisce che il rapporto con i genitori, soprattutto quello con la madre non è stato affatto gradevole. Ma di questo fra un attimo.
Intorno alla morte dei genitori, il regista ha deciso di dipanare una serie di storie e personaggi (anche qui ci dev’essere, seppur in modo diverso, molta autobiografia), incentrate sui due figli, e sulle persone che con loro hanno a che fare. Ne deriva un ensemble di almeno una decina di personaggi, recitati più o meno tutti dal meglio del meglio del cinema (e del teatro tedesco), un cast di straordinaria qualità e anche, direi, straordinariamente coeso, la conferenza stampa, di nuovo, ne è stata la riprova. Il film è diviso in, se non ricordo male, 6 capitoli. Tenuto conto che Glasner negli ultimi anni si è cimentato nelle serie, viene subito da pensare che questo film è una specie di serie malcelata, come dire: 6 puntate da 30 minuti. Lo è e non lo è. Lo è nel senso che fa uso di una tecnica tipica della serie (ma non solo) della rinarrazione da diversi punti di vista dello stesso evento con tanto di ellissi e salti cronologici, non lo è perché i capitoli sono di varia lunghezza e modalità e sono del tutto privi di cliffhanger; alcuni sono molto lunghi, altri brevissimi, alcuni sono, diciamo così, monografici (ovvero recano il nome di un personaggi che tratteranno) altri sono più saggistici, uno per esempio s’intitola “La sottile linea” (anche qui vedi sotto).
A parte il padre Gerd che muore tutto sommato abbastanza presto e quando lo conosciamo è già molto malato (va in giro nudo, non riconosce le persone, scappa di continuo), gli altri personaggi sono ben caratterizzati, ne citerò alcuni, ciò che permetterà di alludere ad alcuni snodi della trama, ad alcuni temi e ad avanzare anche qualche giudizio. A cominciare, in ordine di età e di apparizione, dalla madre, interpretata da Corinna Harfouch, un’attrice settantenne straordinaria, originaria della DDR, che ormai da anni interpreta ruoli di estremo garbo, e qui interpreta invece una piccolo borghese provinciale (la famiglia originaria vive in Bassa Sassonia, non distante da Amburgo), invecchiata male, un personaggio di una freddezza inimmaginabile tale da non invidiare affatto il povero Glasner se, come sostiene, è la riproduzione della sua madre vera. A seguire il figlio maggiore Tom (Lars Eidinger, grandissimo attore teatrale che qui sostiene forse il suo ruolo più importante al cinema): lavora come direttore d’orchestra a Berlino, che con una madre così non poteva che venir fuori totalmente danneggiato. Il dialogo/resa dei conti fra questi due personaggi (25 minuti!!!) è la cosa più bella dell’intero film ed occupa la parte finale del capitolo 2. Tom deve dirigere una sorta di oratorio per l’appunto intitolato Sterben, opera di un suo caro amico, un depresso cronico con forti tendenze suicidali che risponde al nome di Bernard ed è interpretato da un altro ottimo attore, ossia Robert Gwisdek, che by the way nella realtà è il figlio di Corinna Harfouch (della serie: buon sangue non mente, anche tenuto conto che il padre era Michael Gwisdek, altro grandissimo attore, scomparso da poco). Dirigere l’opera di questo musicista, mai sicuro di sé e costantemente incline a riscrivere, cambiare etc,, è una specie di mission impossible che mette a dura prova la pazienza di Tom, persona in fondo assai di buon cuore, morigerata, come dimostra anche la sua situazione familiar-sentimentale. Ha infatti accettato di fungere da secondo (a tratti primo) padre alla bambina partorita dalla sua ex, da cui si è separato da almeno dieci anni (anche qui ci sono dei retroscena). È lui e non il padre carnale che assiste al parto, è lui che si traveste da Babbo Natale. Felice, non è difficile immaginarlo, non lo è per nulla, ma cerca per quanto possibile di mascherare la sua insoddisfazione. Diciamo che fin qui – sto elencando i personaggi in ordine di apparizione – il film funziona piuttosto bene, un centinaio di minuti e avremmo detto: non un capolavoro, ma certamente un film di qualità, capace di raccontare piuttosto bene le dinamiche interpersonali, soprattutto quelle famigliari, i 25 minuti di cui sopra a fungere da acme, una via di mezzo fra Cechov e Strindberg, un po’ troppo teatro, forse, ma anche solo per quella lunga sequenza un film meritevole.
Ma al termine del terzo capitolo entra in scena la sorella di Tom, che risponde al nome di Ellen (anche qui, ottima attrice per carità, Lilith Stangenberg) e che rappresenta, diciamo così, la pecora nera di questo piccolo nucleo famigliare. Tom fa il direttore d’orchestra, Ellen, pur dotatissima nel canto (ma la casella era già occupata dal fratello), fa l’assistente di un dentista ed è alcolizzata. Con l’ingresso di Ellen e del suo amante Sebastian (anche qui: un bravo attore: Ronald Zehrfeld), il film vira verso l’eccesso, verso il grottesco. Non starò a raccontare cosa succede, ma ci sono varie scene sgradevoli (un dente estratto con delle pinze da artigiano nel retro di un locale, vomito durante la prima rappresentazione dell’oratorio di cui sopra etc,); c’è poco da fare: lo spettatore, purtroppo, questa rottura di stile (così lo chiamano i tedeschi: Stilbruch) fa davvero fatica ad accettarla, malgrado Glasner, di nuovo in conferenza stampa, abbia strenuamente difeso la complessità della vita, della sua vita, a cui questo film – che inizia bene ma finisce in modo assai deludente – vuole ispirarsi.
Giusto per completezza: la sottile linea che dà il titolo a uno dei capitoli è il campo di tensione di cui parlava Tonio Kröger alla pittrice russa Lisaweta Iwanovna nella novella di Thomas Mann, voler piacere al pubblico ma anche al cenacolo, creare un’opera di qualità senza prostituirsi ai gusti corrivi. Ed è la sindrome di cui soffre in modo terribile il musicista Bernard e che alla fine, fra molte altre cose, gli farà compiere il gesto estremo. Forse Glasner ha voluto dirci che anche la sua opera vive di questa straziante tensione. Il rischio è che il regista con Sterben finisca per non soddisfare nessuno.
Sterben – Regia, sceneggiatura: Matthias Glasner; fotografia: Jakub Bejnarowicz; montaggio: Heike Gnida; musica: Lorenz Dangel; interpreti: Lars Eidinger, Corina Harfouch, Lilith Stangenberg, Ronald Zehrfeld, Robert Gwidsek, Anna Bederke, Hans-Uwe Bauer, Saskia Rosendahl; produzione: Port au Prince, Schwarzweiss, Senator; origine: Germania 2024; durata: 180 minuti.