Come gli dei hanno abbandonato gli uomini, così il mito è reso cruda vicenda umana da Colm Tóibìn e da Roberto Andò, l’uno scrittore e l’altro regista teatrale. E quindi:
Gli Dei se ne sono andati, la casa un tempo popolata dai loro nomi risuona ormai a vuoto.
Grida Clitennestra, mentre i dolori della sua vita ritornano uno a uno sul palcoscenico. La spedizione per Troia è in stallo, Agamennone ha ucciso il cervo consacrato ad Artemide e la dea scatena venti contrari perché la flotta non salpi. Così, almeno, ha vaticinato l’indovino. Agamennone ordina a Clitennestra di raggiungere l’accampamento, e che porti con sé la primogenita Ifigenia. La regina di Micene crede che il marito voglia far sposare la figlia ad Achille, giunta sul posto il guerriero dal piede veloce è però perentorio:
Io sto aspettando una battaglia, non una sposa.
L’inganno è rivelato: Agamennone deve sacrificare la figlia perché gli altri re greci minacciano di abbandonarlo. Ifigenia pronuncia le ultime parole:
Per prima ti ho chiamato mio padre e tu figlia.
E il sacrificio è compiuto. Poi il pianto silenzioso della madre riempie il palazzo. Agamennone è via, e nel frattempo Clitennestra si avvicina a Egisto, straniero imprigionato. Tra i due nasce qualcosa che ha il seme della vendetta e quello della passione. Al ritorno di Agamennone trionfatore, il piano è da attuarsi: moriranno lui e Cassandra, la profetessa di sventure. Compiuto il fatto, la secondogenita Elettra osserva la madre:
Mamma, perché piangi in silenzio?
Sarà lei la prossima vittima.
Giusto un anno fa Roberto Andò ci aveva deliziato con un lavoro su Ferito a morte di La Capria che era una gemma di scenografia e luci (Gianni Carluccio), e teatro in toto. Nell’entrare all’Argentina si aveva la percezione di camminare per una Napoli in caduta sul fondo del mare, e i personaggi danzavano con allegria disperata nelle sale del disastro in atto. Il discorso si ripete con questo spettacolo, la potenza scenografia muta e comunque l’obbiettivo è centrato in pieno: il palazzo di Micene è ridotto a un sotterraneo squallido, sporco e impersonale. La lordura ricopre i muri, le infiltrazioni calano acqua, la ruggine cresce. A muovere i personaggi non sono passioni dominanti, bensì la costrizione imposta da loro medesimi: come topi che una mano superiore ha posto nella stessa gabbia perché si facciano fuori, l’uno dopo l’altro.
Come è proprio di Andò, lo spettacolo avanza per quadri in cui la luce (calda o fredda) disegna delle profondità che si sommano alle vertigini della scenografia. Nella scelta dei costumi si opta per abiti primo novecenteschi, scelta non insolita per una tragedia greca – benché il testo di Tóibìn sia contemporaneo – e si pensi ai costumi di Medea per la regia di Tiezzi, di questa estate all’INDA. Costumi borghesi scelti per allontanarsi dal mito, mito che nella sua meraviglia nasconde l’assassinio dietro il sacrificio voluto dagli Dei, quando la morte di Ifigenia è ben altro: un omicidio deliberato, forse nemmeno necessario. C’è ben poco di divino in esso, molto della miseria dell’umano che senza Dei non sa che pesci pigliare. Infine, costumi che mutano, per costruire una evoluzione temporale/simbolica alla vicenda, dal nero più profondo al bianco catartico. Dal nero della colpa al bianco della purezza, con un pizzico di pietà nei riguardi dei personaggi.
Per quanto riguarda le interpretazioni, Isabella Aragonese sostiene egregiamente un ruolo difficile, ottimo Alovisio in Agamennone e buona prova di Arianna Becheroni e Anita Serafini nelle parti di Ifigenia ed Elettra.
Lo spettacolo è tratto dal libro di Tóibìn, La casa dei nomi (2017), e Roberto Andò vi ricama poi la sua idea di teatro che unisce comprensione accurata del testo di origine e una buonissima potenza cinematografica. Ormai da quarant’anni con le mani in pasta nella letteratura – Calvino, Zanzotto, Sciascia, Ortese, Camilleri, Pirandello (La stranezza, 2022) etc etc – il regista palermitano ha una sua impronta teatrale che crea aspettative e con Clitennestra le conferma, nonostante un passo indietro rispetto alla qualità de Ferito a morte dell’anno passato. In quel caso si parlava tuttavia di un’eccellenza, difficilmente replicabile.
Se là eravamo nella Napoli della nostalgia, qui siamo in un tempo che ha perso la protezione del mito e lascia l’uomo solo: Agamennone deve uccidere Ifigenia perché Artemide realmente impedisce la partenza o perché i re greci non hanno pazienza di attendere venti favorevoli?
Gli Dei hanno smesso di pettinarci i capelli.
E l’uomo è abbandonato, Clitennestra è padrona del suo destino:
Se gli Dei non vegliano su di noi, chi ci dirà come comportarci?
Sarò io, quindi, senza pregare più nessuno.
Ma una cosa è dire, un’altra è rimanere soli, nel nulla:
Qui c’è solo vuoto. Vuoto. Siamo ombre sconclusionate.
Sino al 21 gennaio al Teatro Argentina, Roma.
Clitennestra – da La casa dei nomi di Colm Tóibín; adattamento e regia: Roberto Andò; scene e luci: Gianni Carluccio; costumi: Daniela Cernigliaro; musiche e direzione del coro: Pasquale Scialò; suono: Hubert Westkemper; coreografie: Luna Cenere; trucco: Vincenzo Cucchiara; parrucchiera: Sara Carbone; aiuto regia: Luca Bargagna; interpreti: Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Becheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini; coro: Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini, Antonio Turco; foto: Lia Pasqualino; produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Campania Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival.
Ottima Arianna becheroni un interpretazione da grande attrice