Per chi è nato a Roma, o ci vive, camminare in una città prestata al cinema è d’abitudine. Una volta al mese, che lo si voglia o meno, si inciampa in un set, furgoni bianchi e cinepresa al seguito. Per chi è nato fuori Roma, magari proprio a Bergamo, come chi scrive, la situazione è differente. Non che ne siamo completamenti avulsi, è doveroso dirlo: non meno di tre anni fa Luca Guadagnino girava gli ultimi venti minuti di Call me by your name (https://www.closeup-archivio.it/chiamami-col-tuo-nome) per le strade di Bergamo Alta e più di trent’anni fa Ermanno Olmi conquistava Cannes con L’albero degli zoccoli raccontando la ‘bassa’, quella distesa di campi che porta a Milano.
Questa volta, però, è ben diverso, perché Bergamo non ha attirato registi o scrittori di sua volontà, è stata piuttosto vittima di un circo mediatico che il giorno prima non c’era e il giorno dopo parcheggiava i propri mezzi dotati di antenna satellitare nelle vie dei paesi e davanti alla questura. Lì ci sarebbero stati, per almeno un paio di anni, alcuni anche più. Posso dire di ricordarlo bene: Brembate di Sopra, luogo dove è avvenuto il rapimento, confina infatti con due paesi, l’uno quello in cui vivevo e l’altro quello in cui c’era il mio liceo, ed era quindi inevitabile che tra timide fioccate di neve – negli ultimi anni a Bergamo nevica seriamente tardi, dopo gennaio – io quei furgoni della televisione li vedessi moltiplicare. Moltiplicare come le notizie contraddittorie che da quel momento cominciarono ad arrivare alle nostre orecchie e avrebbero continuato fino e oltre quel 26 febbraio 2011 quando un aeroplano cade spezzandosi ala e coda accanto a un corpo, o ciò che ne rimaneva, quello di Yara Gambirasio.
Il film Yara (https://close-up.info/yara/) prodotto da Netlfix e diretto da Marco Tullio Giordana, inizia proprio dall’aeroplano, in medias res, per poi tornare a quella notte di novembre nella quale una ragazzina va alla scuola di ballo e non fa più ritorno. Il padre va dalla polizia, si cerca di capire se Yara sia fuggita di casa, si comprende che faceva parte di una famiglia felice, iniziano gli allarmi, le ricerche e le prime indagini. Un’intera provincia si mobilita, forze dell’ordine e non battono a palmo a palmo il territorio in lungo e in largo, mentre i cani molecolari non si spingono troppo lontano ed entrano in un cantiere: là avrà inizio la prima ‘cantonata’, quella che vede un muratore colpevole di aver detto una frase tradotta male e, soprattutto, di averla detta in arabo. Il muratore è infatti marocchino e gli stereotipi a riguardo arrivano laddove la frase non osava: da “dio mio, non l’ho uccisa io” a “dio mio, fa che risponda” il passo non è poi così lungo, se si è affetti da miopia razziale. È un momento difficile per le indagini e per chi le conduce, il pm Letizia Ruggeri, l’eroina su cui il film si basa.
Sola in un mondo maschile che cerca in più occasioni di metterla in secondo piano – il procuratore Sperone (Augusto Zucchi) e il senatore Nigiotti (Rodolfo Corsato) -, Letizia Ruggeri (Isabella Ragonese) è la detective che non smette di cercare la verità. Donna dura, a colpi di pugilato, madre che proietta sulla figlia le paure inconsce dovute al fantasma di Yara e del suo rapitore, è colei che porta l’indagine all’estremo: creare una banca dati di DNA, a posteriori, per poter confrontare quello di Ignoto 1 e trovare così l’uomo che quel giorno ha colpito e, probabilmente, un giorno potrebbe colpire di nuovo. La vicenda si complicherà, tra figli bastardi e alleli particolari, e se abbia avuto successo o meno, alla fin fine, è qualcosa che sappiamo già.
Marco Tullio Giordana firma una regia attenta, nella quale la ricostruzione è talvolta così precisa da sorprendere pure chi quei luoghi li conosce bene. Azzeccando di scenografia, quindi, non sbaglia neppure nei personaggi, rendendo un’idea chiara di chi possano essere i genitori di Yara, Maura e Fulvio (rispettivamente Sandra Toffolatti e Mario Pirrello), persone riservate e impacciate nel ritrovarsi protagonisti di articoli di cronaca nera che fino ad allora avevano solo potuto vedere da lontano, oltre lo schermo di una televisione. È infatti una provincia, quella bergamasca, che viene raccontata mimandone lo schivo stupore: per una volta le telecamere sono rivolte a loro e non viceversa, per una volta tocca a loro schermirsi o far finta di niente, impegnandosi a fare altro, cercare o pregare.
Imparzialità è un altro tema dominante. Imparzialità per essere chiari che un colpevole è stato trovato, benché tale lui non si ritenga. E qui c’è forse uno dei lavori più interessanti della pellicola: dell’assassino non si fornisce solo l’identikit anagrafico, ma pure quello psicologico. Massimo Bossetti (Roberto Zibetti), un «uomo debole» – nota la PM – che è arrivato a tanto così dall’uccidere ma non c’è riuscito (Yara morirà d’ipotermia in quel campo), un uomo che forse voleva stuprare ma non l’ha fatto, un uomo che poteva fuggire eppure, ancora, è rimasto. Un uomo in prigione che ora si dichiara innocente. Diciamocelo: quanto si può dire di una persona attraverso il suo personaggio?
Soprattutto all’interno di un fatto realmente avvenuto, una storia di cronaca tanto ‘facilmente’ trasponibile per la sua avvincente articolazione tra colpi a vuoto e colpi di scena (DNA, ignoto 1, il figlio bastardo etc etc). Si ha in più occasioni la netta sensazione che l’arte cinematografica non debba impazzire per inseguire la realtà (nessun docufiction), ma sia la realtà stessa a offrirsi a essa. Come direbbe Pirandello: “Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità”. Ecco, appunto.
Su Netflix
Cast & Credits
Yara – Regia: Marco Tullio Giordana; sceneggiatura: Graziano Diana, Pietro Valsecchi, montaggio: Francesca Calvelli; interpreti: Isabella Ragonese (Letizia Ruggeri), Alessio Boni (colonnello Vitale), Thomas Trabacchi (maresciallo Garro); produzione: Taodue; origine: 2021 Italia; durata: 91′; distribuzione: Netflix.