Maledetta primavera

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Roma, anni ’80. La quattordicenne Nina (Emma Fasano) si trasferisce con la sua famiglia in periferia – una famiglia non proprio ben assortita:   Giampaolo Morelli (il padre), Federico Ielapi (il fratello) e Micaela Ramazzotti (la madre). La casa è piccola, il paesaggio desolato, tutt’intorno proliferano enormi distese d’erba e cemento. Anche la giovane protagonista sta attraversando, in un certo senso, le Colonne d’Ercole della sua infanzia: sospesa in un limbo a metà fra la fanciullezza e un’adolescenza parzialmente indesiderata, la ragazza tenta di barcamenarsi all’interno della nuova routine.

Maledetta primavera si muove sull’onda di un ricordo personale e condiviso: Elisa Amoruso, giunta qui al suo primo lungometraggio di finzione, pare tuttavia non aver del tutto abbandonato le proprie origini documentaristiche. E infatti, il film racconta la sua infanzia – ce lo testimoniano i titoli di coda, ma anche un tocco intimo e privato che pervade lo sguardo della cinepresa. La scuola e suoi strani rituali, la torrida estate romana, l’entropia familiare non costituiscono che lo scenario esteriore di un’avventura interiore: Nina resta sospesa in un universo parallelo, la costellazione decadente e arrugginita che la circonda si limita a sfiorarla per brevi periodi, senza mai davvero ferirla.

Le cose cambiano a partire dall’incontro con Sirlei (Manon Bresch), coetanea (o quasi!) di origini brasiliane e dal carattere ribelle con cui la nostra piccola Elisa del grande schermo stringerà amicizia. La coppia è da manuale: sparuta e repressa l’una, istintiva e selvaggia l’altra. Ma l’apparenza inganna, e così la strana relazione fra le due si trasforma in uno stravagante viaggio sulle montagne russe, in una partita a solitario nella quale non sempre i giocatori sono disposti a scoprire le proprie carte – almeno dal punto di vista dei personaggi. A noi l’obiettivo non si sente in dovere di celare nulla: è Sirlei l’insicura, la parete fragile e pericolante di questo bizzarro edificio emotivo, la chiave di volta che farà crollare l’intercapedine psicologica di Nina, aiutandola a penetrare il suo microcosmo domestico e insieme ad emanciparsi definitivamente da quest’ultimo.

L’unico modo che la protagonista conosce per relazionarsi col mondo esterno è porsi al di sopra di esso, osservando la realtà con quel senso di timore e di vaga estraneità con cui una madre osserva il figlio appena nato. Il quadro dipinto dalla regista è composto da migliaia di solitudini che cercano di occuparsi l’una dell’altra, ma invano: l’impressione è di trovarsi davanti ad un acquerello dalle tinte sbiadite, di osservare le figurine spostarsi fra strade deserte, parchi abbandonati, spiagge colonizzate da roulotte di cartapesta. Ma non si tratta di artificio, né di un’irritante propensione a trasformare il degrado in poesia, quanto di utilizzare il mezzo cinematografico per tracciare i contorni di una memoria. Fino all’epilogo, l’occhio rimane quello di Elisa bambina, i toni pastello non corrispondono a quelli originali, essi non appartengono agli squallidi casermoni che cingono l’angusto terrazzo da cui Nina sbircia circospetta la vita, ma convergono in reminiscenze lontane e lì indugiano.

Il risultato, però, appare incerto, sembra quasi che qualcuno abbia allungato troppo i colori sulla tavolozza e alla fine non siamo in grado di ricostruire i volti, né di conferire agli avvenimenti una fisionomia precisa – ebbene, se l’intenzione dell’autrice era questa, l’esperimento può dirsi riuscito. Noi però rimaniamo titubanti, come se ci ritrovassimo a mangiare una pietanza senza riuscire a percepirne i sapori: è in effetti ciò che si prova di fronte ai ricordi altrui.

Dietro ai cieli saturi di luce, ai cortili assolati, alla negligente libertà in cui la ragazzina si muove, s’apre un vuoto smisurato, un nulla dalle dimensioni claustrofobiche pronto a divorare l’intero palcoscenico: questo stato di abbandono, proveniente da un edificio familiare in gran parte disabitato, si riflette su ogni aspetto della quotidianità in cui Nina vaga senza meta. La lontananza non è una condizione, ma rappresenta essa stessa il conseguimento di uno scopo: per la giovanissima protagonista, quello di ricodificare il vincolo che la tiene legata alla proverbiale immaturità paterna, alla dolorosa vivacità del fratellino, alle imperturbabili nevrosi materne. Sirlei si rivelerà essere il perno di un lento, ma inesorabile processo di ribellione grazie al quale la protagonista si riapproprierà del diritto di sbagliare e d’insorgere. Cresciute troppo presto, abbandonate in uno spazio ristretto e al contempo illimitato, le due giovani riusciranno a compiere il percorso opposto rispetto a quello che ad entrambe è stato chiesto d’intraprendere fino al momento del loro primo incontro, perdendosi così in un’infanzia rimasta incompiuta.

In sala dal 3 giugno. 


Cast & Credits

Maledetta primavera – Regia: Elisa Amoruso; sceneggiatura: Elisa Amoruso; fotografia: Martina Cocco; montaggio: Chiara Griziotti; interpreti: Emma Fasano (Nina), Manon Bresch (Sirlei), Giampaolo Morelli (padre), Federico Ielapi (fratello), Micaela Ramazzotti (madre), Fabrizia Sacchi (madre di Sirley), Orietta Notari (Suor Caterina), Sara Franchetti (Nonna Adriana), Massimo Cagnina (Cicala), Eliana Miglio (Alba), Claudio Bigagli (prete); produzione: BiBi Film, Rai Cinema, con il contributo del MiBACT; origine: Italia 2020; durata: 94’; distribuzione: Bim.

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