Eloise (Thomasin McKenzie) è una ragazza di campagna dal passato difficile e dai mille sogni nel cassetto. Cresciuta in un modesto cottage nel bel mezzo della gelida Cornovaglia, la dolce fanciulla trascorre le sue giornate ascoltando ossessivamente vecchi vinili donatigli dalla nonna-tutrice (Rita Tushingham) e fantasticando su un improbabile futuro da celebre stilista d’alta moda.
Beh, non si può certo dire che gli sceneggiatori di Last Night in Soho, cioè in italiano Ultima notte a Soho, l’ultima fatica del regista britannico Edgar Wright, brillino per originalità: da Cruella (https://close-up.info/crudelia-perche-si/) alla nuova Cinderella targata Prime Video, dall’irraggiungibile Vanessa conosciuta nel recente In the Heights fino ad arrivare alla delicata e ingenua Ellie, pare proprio che per le giovani donne del grande schermo il mestiere di fashion designer sia l’unica ambizione possibile. Nessuna che voglia diventare giornalista, chef, o magari architetto: la passerella sfolgorante è la sola strada che porti al successo e alla realizzazione individuale, la sindrome di Amanda Priestly regna sovrana su ogni personaggio femminile concepito negli ultimi cinque anni.
Ma torniamo alla nostra piccola fiammiferaia del countryside inglese – o meglio, ritorniamo al suo universo parallelo tutto minigonne, dondolii e capelli à la Twiggy. L’ammissione ad un prestigioso college londinese rappresenta, per Eloise, una vera e propria chiamata dal cielo: Londra è la patria del pop, dei Kinks, dello swing, degli oscuri pub in cui ubriacarsi e dimenticare sé stessi, dei tuguri in cui riallestire una nuova bohème. Londra è la città natale dei folli, di Jack lo Squartatore, degli assassini e degli incompresi, dei veggenti e dei suicidi – fra questi ultimi, purtroppo, rientra anche la madre della protagonista, morta in circostanze misteriose proprio durante un viaggio nella Capitale. La pellicola di Wright viaggia ad una velocità supersonica, il tempo sembra perdersi in un vortice allucinato e in men che non si dica ci ritroviamo fra i colori sfavillanti di Camden Town, fra gli accecanti neon di Carnaby Street, fra le nebbie soffuse di Soho.
La vita allo studentato non è semplice, le compagne di corso sono (chi l’avrebbe mai detto?) arroganti e inspiegabilmente prive di empatia, la città si perde nei fantasmi dei giorni che furono, le vie se ne stanno immerse in una caligine irrequieta e disturbante: il quadro perfetto, dunque, per riportare alla luce l’infanzia interrotta di Ellie – e per spingere l’eroina ad affittare un polveroso appartamento sopra alla casa di un’anziana signora. Dall’edificio si sprigiona una bizzarra atmosfera da incubo ad occhi aperti, come se le pareti e i mobili fossero rimasti incatenati ad un’epoca molto lontana e (forse) in gran parte sconosciuta. La notte accadono cose strane e, sprofondando fra le lenzuola ingiallite, l’innocente studentessa viene gettata nel gorgogliante entusiasmo dei primi anni ’60: è qui, nei lussuosi e rutilanti varietà della swinging London, che Eloise incontra la sua perfetta antitesi: si tratta dell’enigmatica quanto sfuggente Sandy (l’ex regina degli scacchi Anya Taylor-Joy), aspirante diva e sorta di messaggero dell’era-Beatles, pronta a lasciarsi inseguire fra gli enigmi della metropoli.
Sonno e veglia, dunque, iniziano a scambiarsi di posto con la frenesia di un nascente ciclone: il regista vorrebbe edificare un limbo in cui riunire ragione e pazzia, ricreando la sospensione necessaria a lasciare lo spettatore interdetto. Le citazioni abbondano (da Quentin Tarantino a Nicolas Roeg, nessuno può dirsi escluso), i capricci creativi di Wright tentano ostinatamente di rimettere in scena un intero universo musicale e cinematografico, ma senza preoccuparsi di verificarne le fondamenta: dispersi in un angosciante prestissimo, gli attori si comportano come timorosi adolescenti seduti attorno ad una tavola Ouija.
Eppure qualcosa non va e il vago senso di timore evocato nel giro della prima mezz’ora sparisce sotto la spaventosa coltre dell’ovvio, capace d’inghiottire nelle sue fauci perfino il coup de théâtre conclusivo. Nemmeno l’ironia pare essere di grande aiuto: essa, infatti, viene posta là dove non serve e finisce per risultare assente là dove invece se ne sentirebbe un tremendo bisogno. In generale, l’opera si articola come un musical dal repertorio un po’ scontato e dai motti uggiosi come la vecchia stanza che la protagonista prende in prestito a Soho. Non c’è traccia di inquietudine, né di quel fastidioso smarrimento presente in ogni buon thriller a sfondo psicologico. Non abbiamo nessun dubbio su chi siano le vittime e chi i carnefici, nessun campanello d’allarme si attiva nella nostra mente e, di conseguenza, le vicende rimangono incastrate in una dimensione che non permette agli interpreti di acquistare uno spessore concreto. L’effetto è quello di una seduta spiritica recitata a luci accese: vediamo benissimo chi, da sotto al tavolo, sposta la nostra seggiola.
Dal 4 novembre in sala
Cast & Credits
Last Night in Soho (Ultima notte a Soho) – Regia: Edgar Wright; sceneggiatura: Edgar Wright, Krysty Wilson-Cairns; fotografia: Chung Chung-hoon; montaggio: Paul Machliss; interpreti: Anya Taylor-Joy (Sandy), Thomasin McKenzie (Eloise), Matt Smith (Jack), Diana Rigg (Miss Collins), Rita Tushingham (Peggy Turner), Synnøve Karlsen (Jocasta), Jessie Mei Li (Lara), James Phelps (Harvis), Oliver Phelps (Jarvis), Michael Jibson (detective); produzione: Complete Fiction, Film4, Working Title Films; origine: USA, Regno Unito 2021; durata: 118’; distribuzione: Universal Pictures .