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Voto
Le vie della distribuzione sono infinite. Ci sono voluti ben due anni e mezzo perché, grazie a Wanted, arrivasse in Italia il bel film della regista iraniana Noora Niasari, che da decenni ormai vive in Australia, dove il film è stato girato e prodotto. Presentato a Sundance nel 2023, il film ha anche rappresentato l’Australia all’Oscar senza tuttavia arrivare né alla long né alla short list.
Pur classificabile come film di finzione (Niasari aveva girato fin qui solo corti e documentari) Shayda presenta una massiccia dose di materiale autobiografico, come testimoniano, al più tardi, le brevi sequenze tratte da home movies che autentificano il materiale che si è appena visto, intervallate dai titoli di coda.
E il materiale è di quelli oltremodo drammatici. Il personaggio di cui al titolo, ottimamente interpretato dall’attrice Zar Amir Ebrahimi, una figura di spicco del cinema e della cultura iraniani, attrice protagonista di Holy Spider (per cui venne premiata a Cannes), di Leggere Lolita a Teheran, regista di Tatami nonché celebre attivista del movimento a sostegno delle donne- tutte cose, soprattutto quest’ultima, che aumentano non di poco il carattere di denuncia, già notevolissimo del film.
Che tratta una piaga mondiale – l’Italia non ne è certo immune, anzi – ovvero la violenza famigliare, o per meglio dire la violenza dei maschi, dei mariti ai danni delle mogli e delle donne. Qui la violenza subita da Shayda sta all’origine, funge da flash-back traumatico, soprattutto nel tentativo di ricostruire e dar vita a un dossier per mezzo del quale la protagonista intende procedere contro il marito, emigrato come lei in Australia, prevalentemente per conseguire un titolo universitario e diventare medico. L’azione legale è ampiamente sostenuta dall’australiana Joyce (Leah Purcell) che la ha accolta, insieme alla figlia Mona (Selina Zahednia), in una casa famiglia che ospita donne che hanno subito danni consimili. Peccato che la giustizia australiana non sembri particolarmente celere, prova ne sia, che prima di giungere alla fase dibattimentale, il sordido marito Hossein (Osamah Sami) ottiene il permesso di vedere Mona. A rendere il tutto ancor più problematico si aggiunge il fatto che mentre Shayda non ha la minima intenzione di tornarsene a Teheran, il marito, ottenuto il titolo universitario, vorrebbe tornare in patria, di cui non mette neanche lontanamente in discussione il carattere coercitivo, soprattutto in relazione alle regole che vessano le donne, vorrebbe portarsi dietro la figlia e se possibile ricostituire l’intero nucleo famigliare, come se nulla fosse accaduto.

Il film si regge su due modalità: una prima modalità, definiamola, descrittiva, in cui viene illustrato il rapporto fra madre e figlia all’interno della comunità di donne offese e traumatizzate (vietnamite, ma anche australiane), saggiamente orchestrata da Joyce. All’interno di questa modalità spicca il desiderio, in larga parte realizzato, di Shayda di educare Mona alla preservazione di usi e costumi persiani, fatti di canzoni, balli, tradizioni come i festeggiamenti in occasione del Capodanno Iraniano (il Novruz), ma a un certo punto anche le liriche di Hafez. Diciamo che, alla lunga, questa è la parte un po’ più debole, un po’ ripetitiva del film; e ciò accade anche quando, per sfuggire alla claustrofobia della casa-famiglia, la madre (con o senza figlia) esce di casa per unirsi ad altre persone sia della comunità interetnica dove vive sia ad altri, ad altre conoscenze, come lei emancipate e occidentalizzate. In questa parte si canta troppo, si balla troppo, si vedono un po’ troppo spesso le tipiche specialità del cibo iraniano etc.
Vi è poi una seconda modalità che a mio avviso funziona molto meglio, ed è la modalità che verrebbe spontaneo chiamare thriller, soprattutto laddove entra in scena Hossein, lombrosianamente raffigurato come persona brutta, sporca e cattiva. Ogni volta che Hossein compare si ha la sensazione che la situazione potrebbe degenerare, che dietro l’apparente tenerezza nei confronti della figlia possa nascondersi di tutto: violenza e stalking nei confronti della moglie, che vuole il divorzio, mentre lui non ha nessuna intenzione di acconsentire, il possibile rapimento della figlia (tale eventualità la vediamo nella primissima scena del film) e molte altre cose che, in una inquietante escalation, poi succedono davvero ma che non racconterò.
Questo film certamente imperfetto, che si sarebbe potuto comodamente accorciare almeno di una ventina di minuti, dimostra, se ce n’era ancora bisogno, che i film iraniani che arrivano in Europa, in Italia possiedono un gradiente di qualità che non tradisce mai.
Shayda – Regia e sceneggiatura: Noora Niasari; fotografia: Sherwin Akbarzadeh; montaggio: Elika Rezaee; interpreti: Zar Amir Ebrahimi, Selina Zahednia, Osamah Sami, Leah Purcell; produzione: Origma45, The 51 Fund, HanWay Films, Dirty Films, Parandeh Pictures; origine: Australia, 2023; durata: 117 minuti; distribuzione: Wanted.
