Il colore della libertà/ Son of the South di Barry Alexander Brown

  • Voto

Estate 1961. Benvenuti a Montgomery, cuore pulsante della ridente Alabama: una città grande quanto una vaschetta, ma non abbastanza piccola da poter essere attraversata con uno sputo. Battezzato da colui che gloriosamente s’immolò nella conquista dell’indipendenza americana, terra natia di ogni Confederato che si rispetti, questo minuto agglomerato urbano non ha nulla da invidiare all’infernale caos che sembra regnare sovrano sulle grandi metropoli del Nord. Montgomery: uno stretto angolo di Paradiso incastonato fra la brulla ovatta campestre e un fiume sempre torbido. Lasciatevi conquistare dal candido sfarzo delle sue tenute, dal lucente nitore delle sue strade, dalla rude schiettezza dei suoi abitanti, dal battito rassicurante e regolare che scandisce le sue giornate. Sorseggiate una coca cola all’ombra di una magnolia. Scegliete la vostra canzone preferita e scatenatevi insieme a simpatici ragazzoni biondi dal volto squadrato, a graziose fanciulle dalle capigliature di fata e dalla battuta pronta.

Questa è la cartolina affrancata e imbucata dal regista statunitense Barry Alexander Brown, storico collaboratore di Spike Lee finora consacratosi al genere documentario (The War at Home, 1979; Tommy, the Amazing Journey, 1993). E difatti, ad emergere dalla finta bambagia del profondo Sud, è un occhio tagliente e acuto, un occhio in grado di estrarre, dalla romantica miniatura à la Edward Hopper, tutta la solitudine, l’emarginazione, la malcelata sofferenza acquattatesi nelle camere d’albergo semideserte, sul volto impassibile dei nottambuli, fra le gas-stations apparentemente in disuso. Viene dunque legittimo chiedersi cosa si nasconda dietro ai campi di cotone, alle lussuose ville o agli aridi boschetti che circondano la bella e inespugnabile Montgomery.

Ce lo spiegherà Bob Zellner (qui interpretato da Lucas Till), un giovane come tanti altri disperso nel dolciastro color magenta dell’America anni ’60: figlio di un ministro metodista, studente modello, futuro marito, al ragazzo non manca nulla per essere incluso all’interno del sacro e materno asilo chiamato altresì Comunità. Eppure c’è qualcosa che non quadra, un vago e imbarazzato disagio attraversa i soleggiati pomeriggi che Bob trascorre fra le aule del College, in compagnia della fidanzata perfetta, giocando al cronista d’assalto con i suoi amici perfetti. La sua avventura, in fondo, si genera proprio da questa strana nausea, dalla misteriosa indisposizione che lo porterà a squarciare il sipario fra la sua Alabama dal capello paglierino e dalla lama nascosta fra i blue jeans, e l’Alabama degli altri, degli esclusi, dei segregati. Ma chi sono gli altri? E chi è veramente Bob?

Principalmente ricordato per il suo impegno nella lotta contro la segregazione razziale, John Robert Zellner (detto Bob) è ad oggi una delle figure cardine di un passato recente spesso e volentieri evocato dal cinema post-Black Lives Matter. L’obiettivo ripercorre il viaggio che lo espatrierà dal confortante microcosmo domestico per trascinarlo sul fronte della rivolta a fianco dell’attivista Rosa Parks (Sharonne Lainer) e dei suoi metodici quanto inurbati militanti, portandolo a scontrarsi perfino con l’anziano nonno-klansman e con gli eredi spirituali di una patria bianca, contaminata e cancerogena ancora difficilmente sradicabile dall’ombratile idillio posto in esordio al film.

Pur riconoscendo le buone intenzioni degli autori, la pellicola fatica a raggiungere un equilibrio emotivo capace di conferirle la veridicità necessaria per sporgere denuncia. Gli imputati al banco rimangono immobili, come figurine tratte da un vecchio album di famiglia: la cinepresa si limita a sfogliarne disordinatamente le pagine, sovrapponendo le istantanee e gli anni in cui esse vengono scattate. Ci ritroviamo dunque catapultati in un turbine dalle coordinate incerte, nel quale l’oggi succede ieri come succede ancora oggi – l’effetto è surreale e finiamo per smarrire la via della Storia.

La violenza non si addentra mai oltre il velo protettivo erettosi fra il pubblico e la ribalta, i personaggi perdono spessore di fronte al fascino dei loro alter-ego piacevolmente fotogenici: così, il dissidio interiore di Bob si risolve nel giro di qualche breve (e scontatissimo) monologo, il doloroso ricordo di una guerra in fondo mai terminata viene gettato sullo schermo in forma di flashback o di racconto in terza persona, mentre l’intero cast sembra provenire da uno Spaghetti Western – ognuno parla esclusivamente per aforismi. Giunti all’epilogo, ci domandiamo se sia davvero possibile dividere l’umanità in buoni, in brutti e in cattivi: magari. Ma abbiamo come l’impressione che, per il vero Robert Zellner, i confini fossero molto più labili e la sua battaglia più impervia di quanto invece non appaia nell’educato lungometraggio targato Spike Lee. Che vi manda i suoi saluti da Montgomery, Alabama.

In sala dal 2 dicembre


Cast & Credits

Il colore della libertà (Son of the South)- Regia: Barry Alexander Brown; sceneggiatura: Barry Alexander Brown; fotografia: John Rosario; montaggio: Barry Alexander Brown; interpreti: Lucas Till (Bob Zellner), Lucy Hale (Carol Anne), Lex Scott Davis (Joanne), Julia Ormond (Virginia Durr), Cedric the Entertainer (Ralph Abernathy), Sharonne Lainer (Rosa Parks), Brian Dennehy (Grandfather), Chaka Forman (Jim Forman), Mike Manning (Townsend Ellis), Shamier Anderson (Reggie), Ludi Lin (Derek Ang), Sienna Guillory (Jessica Mitford), Jake Abel (Doc), Dexter Darden (John Lewis), Matt William Knowles (Jim Zwerg), Byron Herlong (James Zellner), Onye Eme-Akwari (Charles McDew); produzione: Lucidity Entertainment, Major Motion Pictures, River Bend Pictures, El Ride Productions, SSS Film Capital; origine: USA 2020; durata: 105’; distribuzione: Notorious Pictures.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *