Berlino F.F.: Rimini di Ulrich Seidl (Concorso)

  • Voto
2.5

Insieme a Michael Haneke, Ulrich Seidl, classe 1952, è il regista austriaco forse più noto internazionalmente. Della sua nutrita filmografia, iniziata nel lontano 1980, ricordiamo soprattutto un riuscito Canicola (2001) mentre  tra il 2012 e il 2013 ha realizzato una trilogia che ha avuto un’ampia eco di interesse e che porta i nomi delle virtù teologali. Essa si compone di Paradise: Love (2012),  Paradise: Faith (2012 che ha vinto a Venezia un Leone d’argento) e infine Paradise: Hope (2013).

Quello del regista viennese è uno stile molto preciso e caratterizzato, spesso sembra a tratti assomigliare a quello dei docu-drama tv, in cui i protagonisti – in gran parte attori non professionisti – agiscono come se riproducessero  mimeticamente la realtà.

Seidl utilizza in genere uno linguaggio fatto di inquadrature molto lunghe, a tratti fisse, a tratti piani sequenza, oltre al jump-cut con l’intento di trasmettere uno sguardo estremamente distanziato, del tutto indifferente; i suoi personaggi sono il più delle volte dei poveracci o delle figure laide e repellenti – uomini e più spesso donne, osservati con uno occhio mai partecipato o complice, buttate senza compassione nelle fauci fameliche della macchina da presa.

Insomma quello del regista viennese appare come un cinema impietoso verso l’umanità che sceglie di descrivere, se non vogliamo usare il termine di cinico, anaffettivo o indifferente verso le figure che mette impietosamente in scena. Il perdono nei confronti dei suoi protagonisti non sembra essere una opzione presa in considerazione, i suoi sono dei teoremi cinematografici con esito letale – insomma il contrario assoluto di un punto di vista partecipato e/o minimamente clemente.

Detto ciò che sembra suonare come una stroncatura aprioristica o meglio un giudizio pregiudizialmente negativo, i suoi film, pur nella melma esistenziale in cui si muovono e sguazzano,  a volte riescono a cogliere nel segno, sono dei pugni nello stomaco che possono colpire duro come talvolta è accaduto in passato.

Ma, a nostro modesto giudizio, non è questo il caso di Rimini che ci sembra un film in cui lo sguardo morale di Seidl si riduce essenzialmente ad una geometria a scalare: i figli/e scontano le colpe della generazione precedente: così nei confronti del padre, ex-ufficiale nazista ormai su una sedia a rotelle internato in uno ospizio, il protagonista Richie Bravo, ex cantante pop mezzo alcolizzato che vive del suo passato e si tromba per interesse (e per sentirsi ancora vivo) le vecchie (in tutti i sensi) fan/pensionate, giunte in inverno a ascoltarlo con dei tour appositi; così la figlia Tessa abbandonata dal protagonista  che torna dal passato a reclamare i suoi affetti e i suoi soldi al seguito di una carovana di rifugiati musulmani siriani.

Ambientato in una Rimini invernale e nevosa, molto lontana dallo spirito sarcastico e amabilmente nostalgico di un Federico Fellini, quello di Seidl è un film morto, terribilmente deprimente, con al suo centro un’umanità disperata che per di più non ha neanche conosciuto la pandemia. Tutto è brutto e impietosamente, programmaticamente mostrato, niente è lasciato alla fantasia dello spettatore e alla fine, dopo due ore, non si vede l’ora di abbandonare la sala e tirare un attimo di respiro.

Al limite potrebbe sembrare un complimento per un’opera implacabilmente coerente, ma non lo è. Bitte Herr Seidl, Nein Danke (+ Sole che ride).


Rimini – Regia: Ulrich Seidl; sceneggiatura: Ulrich Seidl, Veronika Franz;  fotografia: Wolfgang Thaler; montaggio: Monika Willi; musica: Fritz Ostermayer, Herwig Zamernik; interpreti: Michael Thomas  (Richie Bravo), Hans-Michael Rehberg (il padre), Tessa Göttlicher (la figlia Tessa), Inge Maux (Emmi Fleck), Claudia Martini (la vedova), Georg Friedrich (Ewald); produzione: Ulrich Seidl, Philippe Bober per Seidl Filmproduktion, Essential Filmproduktion, Parisienne de Production; origine: Austria , Germania e Francia; durata: 114′.

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