A ragione e a torto, giunto solo al suo terzo lungometraggio, il giovane italo-americano Jonas Carpignano, classe 1984, è già diventato un regista di culto – tra l’altro, buon sangue evidentemente non mente, è nipote del regista milanese Luciano Emmer. Una fama, probabilmente data e nata, non solo dal suo peculiare stile quasi da documentarista d’osservazione con grande uso e abuso della macchina a spalla ma anche per la scelta di seguire un determinato luogo in cui applicare il suo acuto sguardo antropologico, popolato da personaggi quasi esclusivamente interpretati da attori non professionisti, presi dalla strada e che parlano in dialetto.
Visto che si tratta di un regista di culto acclarato, prendiamola alla lontana e facciamo un ripassino, magari con in testa l’idea di vedere o rivedere i suoi precedenti lavori. Dopo due cortometraggi praticamente sconosciuti, Carpignano si è andato accostando, pur non essendo di quelle origini, alla Calabria e in particolare alla zona di Gioia Tauro. Tutto è iniziato quando con l’intento di realizzare un film, si voleva documentare riguardo alla rivolta degli immigrati africani a Rosarno nel gennaio 2010 – d’altronde non a caso è figlio di un Professore italiano (Paolo, poi diventato anche il produttore dei suoi ultimi due film) e di un’afroamericana. Ne è sortito prima un corto A Chjána – presentato e premiato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2011 – e successivamente il lungometraggio di debutto Mediterranea (2015), un disperato viaggio della speranza, realmente accaduto, di due fratelli migranti dal Burkina Faso alla ricerca di una vita migliore nella piana di Gioia Tauro.
Passano ancora degli anni e nasce A Ciambra in cui lo stile diciamo così, sostanzialmente “neorealista”, si va affinando con il suo regista che mantiene una proverbiale appercezione fenomenologica sul territorio tale da diventare quasi il motore della storia. La Ciambra è un quartiere periferico e degradato di Gioia Tauro in cui vive Pio, un adolescente sveglio e smaliziato, cresciuto troppo in fretta che coltiva un’amicizia con un emigrante africano oltre a seguire le orme malavitose del fratello Cosimo e del padre. Quando i due familiari vengono arrestati, dovrà provvedere al sostentamento della numerosa famiglia e dimostrare di essere diventato un uomo. Passato alla “Quinzaine des Realisateurs” di Cannes 2017, questo singolare Coming of Age ha riscosso una grande eco internazionale ed è stato definito da Martin Scorsese – che figura anche come coproduttore –, “bello e commovente che entra così intimamente nel mondo dei suoi personaggi da dare la sensazione di vivere con loro”.
A conclusione quindi di una trilogia, ecco infine A Chiara, sempre passato alla “Quinzaine” di quest’anno e sempre vincitore del premio “Europa Labels” per il miglior film europeo.
Anche la storia e l’ambiente non si distaccano dalle opere precedenti di Carpignano – tant’è che ad un certo punto compaiono, come fosse una autocitazione, anche i Rom del film precedente. Ma con una differenza molto significativa: questa volta al centro dello sguardo indagatore ma distaccato, quasi asettico del regista, c’è il mondo femminile e non quello tradizionalmente maschile.
Il film si apre e si chiude con due compleanni dei 18 anni, a marcare due destini diversi e due diverse Weltanschauungen. All’inizio seguiamo una lunghissima – forse un po’ defatigante – festa in cui si celebra l’arrivo dell’età adulta di Giulia, la figlia maggiore di una famiglia, sembrerebbe assolutamente normale, di Gioia Tauro. La sorella Chiara, la protagonista, invece, è più piccola di tre anni, è meno conformista e molto determinata, anche perché sta vivendo quella difficile fase della fine dell’adolescenza in cui comincia a porsi molte domande. Quando la macchina del padre Claudio viene bruciata e si scopre che è ricercato dalla polizia, le domande di Chiara alla famiglia diventano scomode e pressanti. Le si risponde, in soldoni, che è troppo piccola per comprendere, che ci sono cose che è meglio non sapere e cose che è meglio non dire. Ma lei non si arrende a queste false verità e continua a cercare di comprendere soprattutto la scomparsa del padre a cui è molto legata e che, nel corso del film, le rivelerà un lato di sé a lei sino a quel momento sconosciuto. Pur rifiutando l’aiuto dello Stato, la ragazza si avvia a iniziare l’età matura e i suoi diciotto anni a Urbino, sotto il segno della rottura con il passato familiare.
Per apprezzare in pieno A Chiara bisogna superare alcuni momenti di noia e apprezzare dei ritmi narrativi molto dilatati, abbandonarsi completamente al fascino perverso del territorio, amare questa protagonista scontrosa e ribelle con tutte le proprie forze. Carpignano ci consegna un buon film, forse meno sorprendente del precedente, ma sempre di ottima fattura. L’effetto è straniante, l’impressione di inanità a cambiare una società atavica e criminosa come quella mostrata, risulta disturbante e, cinematograficamente parlando, riuscita. Certamente ci si devono sorbire anche delle discrete banalità in materia di manovalanza mafiosa e una rappresentazione abbastanza grottesca degli assistenti sociali o delle forze dello Stato. C’è chi sostiene che è nato così uno nuovo mafia-movie, a noi sembra un giudizio esagerato. Comunque, però, fatta la somma dei pro e dei contro, il saldo, per quanto ci riguarda, risulta ampiamente positivo.
In sala dal 7 ottobre
A Chiara – Regia e sceneggiatura: Jonas Carpignano; fotografia: Tim Curtin; montaggio: Affonso Gonçalves; musica: Benh Zeitlin, Dan Romer; interpreti: Swamy Rotolo, Claudio Rotolo, Grecia Rotolo, Carmela Fumo; produzione: Jon Coplon, Ryan Zacarias e Paolo Carpignano per Stayblack, Haut et Court, RAI Cinema, Arte France Cinema, Film i Väst, Snowglobe, Film MK2; origine: Italia/Francia/Usa/Svezia, 2021; durata: 121’; distribuzione: Lucky Red.