Anna Frank e il diario segreto di Ari Folman

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La parola è memoria. E la memoria ha tante sfumature quante sono le immagini che utilizziamo per riportarla in vita. Lo sa bene Ari Folman, e lo sapevano bene i protagonisti del suo Valzer con Bashir, il docu-film che ripercorre le tracce dell’eccidio di Sabra e Shatila durante la guerra in Libano. Questo nel 2008. Nel primo decennio del nostro secolo, infatti, succede qualcosa di (forse) inaspettato: l’illustrazione si fa voce del passato, e il cosiddetto cartone animato – un genere fino ad allora solitamente associato al mondo dell’infanzia – cambia la propria fisionomia, esibendo tratti inediti e sinistri. Folman, infatti, non è il primo ad affrescare su grande schermo le ombre che ancora incombono sul nostro tempo: l’anno precedente, Marjane Satrapi ci raccontava la sua Odissea nella Persepolis di Khomeini, mentre nel 2004 il suo futuro collaboratore e coregista Vincent Paronnaud già metteva in scena (fra l’altro, con incredibile lungimiranza) il teatro d’ombre della civiltà occidentale, rappresentando la recessione mediante la brutalità stilizzata e primitiva dei suoi uomini senza volto. Sì ma, vi chiederete, cosa c’entra tutto ciò con Anna Frank? Ci arriviamo.

La parola, abbiamo detto, è memoria. E la memoria è soggettiva e collettiva. Così come lo è il linguaggio dell’animazione, capace di articolare messaggi universali attraverso gli occhi del singolo, la sua mano, la sua penna, i suoi ricordi sgraziati, informi, saturati. Se in Valzer con Bashir è l’arte della conversazione a ricondurre in superficie i traumi e il senso di colpa che il regista israeliano maschera tramite fantasie puerili, in Anna Frank e il diario segreto prevale una sorta di monologo interiore – lo stesso che Marji, la protagonista di Persepolis, recita nell’aeroporto di Parigi Orly, rievocando la Rivoluzione, la guerra, la dittatura e sfregiando così un presente asettico e apparentemente inviolabile. I revenants della Storia camminano fra noi, rimuovendo – è il caso di dirlo – quel velo d’invisibilità che l’oggi, per proteggersi, gli conferisce.

Il titolo originale del lungometraggio è difatti Where is Anne Frank: l’intera vicenda, ambientata nell’apatica e sbiadita Amsterdam del terzo millennio, vede Kitty (l’amica immaginaria di Anna, nonché unico destinatario delle sue confidenze) letteralmente colare fuori dai caratteri fitti e nervosi che riempiono la pagina bianca. Il diario è l’unica finestra sul mondo che Anna possa aprire ogni qualvolta ne senta la necessità, la parola è una forma di evasione dalla prigionia forzata – e dunque, Kitty evade dalla casa-museo, avventurandosi in uno spazio-tempo che non le appartiene, o forse che è sempre stato suo. Come l’alter-ego del regista in Valzer con Bashir, anche Kitty ha delle lacune, e forse è proprio a causa di tali lacune che la protagonista rischia incessantemente di svanire nel nulla: per sopravvivere, la giovane fanciulla dai capelli scarlatti deve continuare a leggere, deve tenersi stretta al filo rosso che la lega ad una memoria labile, precaria, in eterno procinto di disperdersi.

Il film di Folman viaggia su binari paralleli destinati, tutto sommato, a non incrociarsi mai: la terribile parabola di Anna si riaffaccia sulla nostra quotidianità con rabbiosa insistenza, le immagini del conflitto, dello sterminio e del moloch nazista sono mediate da una sensibilità individuale. L’isolamento induce le due adolescenti (una intrappolata negli anni ’40, l’altra negli anni 2000) a ridipingere la realtà, forse per alleggerirne la mole – o forse perché la parola, in fondo, non è più sufficiente: così, le SS si trasformano in spettri monolitici, dotati di un mantello nero che ne nasconde i corpi, e di una maschera bianca che ne nasconde il viso (o che nasconde l’assenza di un viso, e l’assenza di un corpo). La mente corre al reomanzo grafico Maus  (Milano, Rizzoli 1989), il capolavoro di Art Spiegelman, in cui l’olocausto assume l’aspetto di un enorme scontro fra gatti e topi – scontro di cui già conosciamo il triste epilogo. È su quella scia che Satrapi, in seguito, abbozzerà i suoi personaggi, dotandoli di sembianze potenzialmente alterabili o quantomeno inscrivibili in un quadro di Picasso. L’alfabeto del trauma non può che essere iperbolico, sovrabbondante, indecifrabile.

Come Spiegelman, anche Folman è figlio di ebrei polacchi sopravvissuti ad Auschwitz. Il suo sguardo è dunque quello di chi, il passato, lo vive sotto forma di racconto: Kitty è il prodotto di questo sguardo, incapace ma bisognosa di ricostruire il ponte segreto che unisce fra loro innumerevoli generazioni di reduci. L’Olanda di oggigiorno si sovrappone all’Europa di Hitler, tingendosi di colori favolistici: così, un gruppo di rifugiati costruisce sul tetto di un edificio un gigantesco dirigibile che dovrebbe traghettarli verso l’utopia di un Occidente libero e materno. Allo stesso modo, i Lager di Westerbork e Bergen-Belsen prendono le forme di un Ade ellenico da cui non c’è ritorno, i carri bestiame si tramutano nel traghetto con cui Caronte trasportava le anime dei defunti, e sui campi di battaglia si riversano gli amici immaginari, gli Dei dell’Olimpo e le star del cinematografo che popolavano la cameretta di Anna.

I palazzi abbandonati in cui oggi si nascondono profughi, fuggiaschi e i cosiddetti emarginati della nostra società sono pericolosamente simili all’asilo segreto della famiglia Frank. Che, a sua volta, diventa un albergo new-age incastonato sulla cima di un’altissima vetta, silenzioso come un templio, sobrio e affamato come il monastero di un eremita. A riemergere dall’apocalisse è l’essere umano e il suo, per l’appunto, essere umano. Ad esso Anna restituisce la dignità perduta, ad esso il regista dedica il passo forse più autentico dell’intero diario: “È incredibile che dopo tutto quello che abbiamo vissuto, tutta quella malvagità, io creda ancora che nel loro profondo gli esseri umani siano buoni.”

La memoria, insomma, è parola, la parola è immagine, l’immagine è mediazione – in questo caso, mediazione dell’anima sulla Storia: un concetto che Folman (e i suoi predecessori) conoscono alla perfezione.

In sala dal 29 settembre


Cast & Credits

Anna Frank e il diario segreto  Regia: Ari Folman; sceneggiatura: Ari Folman; fotografia: Tristan Oliver; voci: Emily Carey (Anne Frank), Ruby Stokes (Kitty), Sebastian Croft (Anne’s Peter), Ralph Prosser (Kitty’s Peter), Michael Maloney (Otto Frank), Samantha Spiro (Edith Frank), Skye Bennett (Margot Frank), Tracy-Ann Oberman (Auguste Van Daan), Stuart Miligan (Herman Van Daan), Andrew Woodall (Albert Dussel), Naomi Mourton (Awa), Ari Folman (Officer Van Yaris), Nell Barlow (Officer Elsa Platt), Maya Myers (Sandra); produzione: Purple Whale Films, Walking the Dog, Samsa Film, Bridgit Folman Film Gang, Submarine Amsterdam, Le Pacte, Doghouse Films, Magellan Films; origine: Belgio, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Israele 2021; durata: 99’; distribuzione: Lucky Red.

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