C’è poco da dire: ci vuol coraggio a girare un biopic su Dante. Se tanti sono stati i tentativi televisivi e cinematografici di confrontarsi con La divina commedia, soprattutto con l’Inferno non risulta, quanto meno a memoria, che qualcuno si sia mai arrischiato a girare un film sulla vita di Dante, un biopic appunto, che Pupi Avati ha semplicemente intitolato Dante. Il regista bolognese aveva cominciato, così ha dichiarato, ad accarezzare il progetto già una ventina di anni fa, ben prima dunque che, nel 2021, il settecentesimo anniversario della morte dello scrittore inondasse il mercato letterario e non, di tantissimi materiali di varia qualità; e ha portato a termine questo azzardo, a 85 anni, senza, diciamolo fin da subito, minimamente sfigurare; e non ci dispiace per nulla che il film di Avati giunga, per così dire, fuori tempo massimo rispetto alle celebrazioni dantesche.
A rendere l’impresa ancora più ardua è la scelta del regista (e soggettista e sceneggiatore) Avati che, come se non bastasse, di fatto decide di scrivere un doppio biopic, ovvero quello su Dante Alighieri e quello su Giovanni Boccaccio, o quanto meno su un certo Boccaccio, ossia l’incondizionato ammiratore di Dante, l’inesausto copista della Commedia, l’incessante promotore nonché combattente per la restituzione dell’onor perduto all’amato poeta, di cui in uno dei momenti più intensi del film si definisce un figlio.
Ché proprio di questo tratta il film di Avati: della missione più che altro simbolica compiuta da Boccaccio per consegnare un sacchetto con dieci fiorini d’oro a mo’ di tardivo e postumo risarcimento da parte di Firenze a suor Beatrice (al secolo Antonia Alighieri, la terzogenita di Dante) dimorante in un convento di Ravenna, la città dove il padre è morto e sepolto. Su questa narrazione a cornice-road movie (che è ovviamente anche un omaggio a chi con il Decameron la narrazione a cornice l’ha, almeno nella percezione collettiva, inventata) che racconta il lungo viaggio da Firenze a Ravenna di un Boccaccio, immalinconito ma tenace, segnato nell’anima e nel corpo, si innesta, anche con l’ausilio di vari testimoni, il racconto della vita di Dante, una specie di riproposizione per interposta persona, anzi per interposte persone (perché oltre a Boccaccio, ci sono i racconti, appunto, dei testimoni e un narratore/ voice off che integra con ulteriori informazioni) dei traumi vissuti da Dante e almeno in parte rielaborati nel suo opus magnum: l’amore infelice per Beatrice, l’amicizia perduta con Guido Cavalcanti e l’esilio, avanti a tutti.

Al di là dunque dell’omaggio intellettuale e affettivo da parte di Boccaccio il film racconta i fatti della vita di Dante nel loro accadere ovvero prima che essi divengano testo, prima che divengano opus, talora tramite assenza di filtri, quasi che la vita con le sue gioie e i suoi dolori si trasformi un po’ troppo meccanicamente in opera. In questo e non solo in questo il film di Avati obbedisce alle tipiche convenzioni o se vogliamo ai tipici limiti dei biopic letterari che di fatto adottano il paradigma della Genieästhetik, ovvero dell’artista eccezionale al quale non viene più chiesto di elaborare e variare modelli pre-esistenti ma appunto di inventare anche in grazie del proprio vissuto e della propria inconfondibile sensibilità e psicologia – e all’interno di un film questa genialità provare a farcela vedere, a renderla plausibile e tangibile. E infatti delle convenzioni del biopic letterario il film di Avati ripropone anche il gesto imprescindibile della materialità dello scrivere: l’artista, per risultare credibile agli occhi di uno spettatore, deve essere visto, immaginato anche nell’atto del comporre, il calamaio sulla carta oppure la penna, la macchina da scrivere, il computer, se possibile anche con la mdp da dietro le spalle che inquadra il manoscritto o il dattiloscritto (e qualora la scrittura sia pressoché indecifrabile, anche la voice over).
E dalle convenzioni del biopic non solo letterario Avati mutua altresì la centralità del trauma: senza trauma, senza traumi non si danno biopic, gli esempi in tal senso sono innumerevoli, per citare l’ultimissimo: si pensi al ruolo che gioca il trauma infantile nell’ultimo film dedicato a Marilyn Monroe, ovvero Blonde di Andrew Dominik appena presentato a Venezia 79 e ora in programmazione su Netflix.
Vi erano poi almeno altre quattro scelte da compiere e mi pare che Pupi Avati abbia tutto sommato optato per soluzioni condivisibili. Prima scelta: che ruolo dare alla filologia dantesca? Qui il regista si è dotato di un parterre di esperti, italianisti e storici di grande vaglia che hanno aiutato un regista, comunque molto esperto di cultura medievale, a evitare strafalcioni (tutti costoro vengono citati nei titoli di testa, e ai dantisti va la dedica finale). Seconda scelta: come e dove ambientare la vicenda senza esser costretti a ricreare tutto in studio? Qui, ricorrendo a inquadrature sempre piuttosto strette e allargando il campo solo nelle zone non antropizzate, si è condotta un’accurata scelta di location, per lo più umbre, laziali e solo in parte toscane, borghi che non rivelano il passaggio del tempo e sembrano da secoli immutate. Giusto per capirci: Firenze non si vede mai, né quella dei tempi di Dante né quella dei tempi di Boccaccio e di Ravenna si vede solo lo skyline di Sant’Apollinare in Classe. Terza scelta: che uso fare del materiale iconografico esistente? Qui il regista ha, come spesso succede, nei film storici all’iconografia dell’epoca, soprattutto affreschi, senza però eccedere in un attitudine estetizzante. E infine, quarta scelta, come comportarsi con il linguaggio? Correndo il rischio di sembrare in più di un’occasione eccessivamente teatrale e diciamo così impostato, mi pare che Avati sia al tempo stesso sfuggito alla tentazione dialettale-popolaresca pasoliniana sia alla riproduzione di un volgare da soft-porno medievale anni ’70, talché viene a prodursi un quasi brechtiano effetto di straniamento fra le molte cose originali citate e il linguaggio contemporaneo parlato dai personaggi.
Insomma si tratta nel complesso di una sfida vinta, forse qua e là un po’ noiosetta e didascalica, con una musica un po’ troppo invadente, ma nell’insieme abbastanza riuscita, anche grazie a Sergio Castellitto che interpreta Boccaccio, a una serie di bravi attori che danno vita a brevi camei: Mariano Rigillo, Alessandro Haber, Leopoldo Mastelloni (che interpreta il papa), Gianni Cavina, nella sua ultima interpretazione. Meno convincente, a mio avviso, Enrico Lo Verso, accento e dizione lo penalizzano. I giovani che interpretano Dante e Beatrice, ovvero Alessandro Sperduti e Carlotta Gamba sembrano un po’ spauriti e attoniti, ma complessivamente piuttosto bravi.
Dal 29 settembre in sala
Cast & Credits
Dante – regia, soggetto, sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Cesare Bastelli; montaggio: Ivan Zuccon; musica: Lucio Gregoretti; interpreti: Sergio Castellitto (Giovanni Boccaccio), Alessandro Sperduti (Dante Alighieri), Carlotta Gamba (Beatrice Portinari), Enrico Lo Verso (Donato degli Albanzani), Alessandro Haber (abate di Vallombrosa), Leopoldo Mastelloni (Bonifacio VIII), Valeria D’Obici (suor Beatrice); produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production; origine: Italia 2022; durata: 94′; distribuzione: 01 Distribution.