Odin Teatret al tempo dell’addio: Tebe al tempo della febbre gialla

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È il giorno dopo l’ultima battaglia. La guerra tra i due figli di Edipo per il dominio di Tebe è terminata. La ribelle Antigone è stata punita per non aver rispettato le leggi della città. Le famiglie seppelliscono i morti tra i quali si aggira il fantasma di Edipo. Creonte e Tiresia predispongono la pace. La Sfinge risale sul trono. Per i giovani è primavera, tempo di innamoramenti. Il futuro è frenesia di sole e oro: una febbre gialla.

 

L’ultimo lavoro ha il sapore dell’addio e la forza dell’addio è legato alla somma del tempo a cui pone fine. Soprattutto, se si tratta della compagnia teatrale più longeva di tutti i tempi. Trasferitosi nei paesi scandinavi, poi in Danimarca, Eugenio Barba fonda nel 1964 l’Odin Teatret e quasi sessant’anni dopo porta la sua ultima fatica, Tebe al tempo della febbre gialla, al Teatro Vascello (dal 26 settembre al 2 ottobre 2022). Nel frattempo, in questo mezzo secolo e spiccioli, ha condizionato il lavoro di intere generazioni di registi, attori e artisti, senza dimenticare la cura per loro, coloro che lo spettacolo in parte lo creano: gli spettatori. È quindi un Eugenio Barba trepidante quello che accoglie il pubblico e persona per persona indica il posto a cui sedere, come se gli spettatori stessi parte della regia fossero e così pure dello spettacolo, a formare un rettangolo, perché il perimetro di un’altra realtà sia delimitata. Quale realtà? Quella altra, quella che sta appena a lato.

A volte ho la sensazione che un sottile muro di aria separi il mondo in cui mi muovo da un mondo che mi sta accanto. Uno spasmo della memoria o un cambio di coscienza mi trasportano inaspettatamente in un’altra realtà. Basta un nome, un’immagine, un suono, e il sottile muro si dissolve e io scivolo nel mondo che costeggia quello in cui mi muovo. Lì figure note e ignote si avvicinano e mi raccontano storie che conosco bene rivelando, però dettagli segreti e fornendo spiegazioni impensate. Insinuano nelle mie mani un’elemosina inaspettata: frammenti di una coscienza rinnovata.

Questa dissociazione mi accompagna da quando avevo nove anni e vidi morire mio padre. Questa realtà parallela è pronta ad accogliermi per confortarmi o esaltarmi. Il mio mestiere di regista ha dato una giustificazione a quella ubiquità. Il teatro aiuta a mediare con l’invisibile.

A essere ponte per quell’invisibile è Tebe. Tebe città maledetta per eccellenza. Per Edipo che ammazzò padre Laio e si accoppiò con la madre Giocasta, per i figli di Edipo, Eteocle e Polinice, che si uccisero tra loro, per Antigone suicida e colpevole di aver voluto solo seppellire il fratello caduto, per chi rimane, Creonte e Tiresia, che una città tra le mani hanno e ora devono sanarne le ferite. Ma ora è tempo di febbre gialla e il tempo della febbre gialla è la primavera. Quella stagione che ha alle spalle l’inverno dello scontento e di fronte a sé solo frenesia di speranza, dove non c’è freno all’eccesso perché l’eccesso è necessità per poter pensare di tornare a vivere, forsanche gioire. E tutto allora esplode, è primavera, ma attenzione: Tebe rimane città maledetta, e i corpi sono ancora da seppellire, e la sfinge e la peste sono tornate, sono di nuovo in città. E con loro un fantasma, quello di Edipo.

                    Eugenio Barba

Un fantasma ricorrente e mai solitario, Edipo e la sua famiglia, come la sua città, che ha accompagnato buona parte della storia dell’Odin Teatret: Oedipus tyrannus (1961), Romancero di Edipo (1983), Il vangelo di Oxyrhincus (1986), Mythos (1998), e di nuovo è poi tornato alla mente di Barba:

Dopo ave realizzato 79 spettacoli sembra superfluo farne ancora uno. Eppure mi muovo verso Edipo, homo viator, il viandante pellegrino cieco che mi tende la mano. Insieme ai miei attori avanzo a tastoni nel buio. Gli attori riconoscono i loro personaggi solo dopo che li hanno creati. Il regista sfiora l’essenziale quando inventa il suo spettacolo solo dopo che l’ha finito. Bisogna smettere prima di aver detto tutto. Ma non avevo niente da dire. Il teatro è stato per me un rifugio, una isola galleggiante, una Galapagos di libertà.

Tebe al tempo della febbre gialla è uno spettacolo che della dimensione altra ha non solo la collocazione, ma pure il linguaggio e la modalità di trasmissione. In un babelico greco antico, con riferimenti in italiano a introdurre le dodici scene, scenografia in fieri e in continuo mutamento, personaggi a sopravvivere in scena per il tempo della loro evocazione, siano loro fantasmi, siano loro persone ancora vive. Sono personaggi evanescenti sorretti dal suono delle fisarmoniche e legati ai teli, gialli e riportanti dipinti celebri, teli che i personaggi trascinano in scena e usano per tappezzare ogni angolo del rettangolo delimitato. Ma perché giallo? Giallo perché

È l’ultima parola bisbigliata da ogni lingua che muore. Ricorda l’oro, il sole che luccica sui campi di grano e di colza, i capelli di donne che ho amato, la fame di vita di Van Gogh quando dipingeva i suoi tulipani e a volte, durante le sue crisi, ingoiava questo colore dal tubetto.

Giallo per la primavera, per l’amore, per la speranza. Eppure c’è lei, la Sfinge. Trascinata nel mezzo, un corpo di legno da cui farsi domare o domare una volta per tutte per cercare di levare quella maledizione che pesa sulla città. Solo quando lei sarà finalmente risolta Tebe potrà risorgere perché: «Sette volte sette Tebe sarà distrutta e sette volte sette più una Tebe risorgerà».

Si diceva che Tebe al tempo della febbre gialla trasporta in una realtà altra, con le risorse infinite e le difficoltà ardue che può porre allo spettatore che deve confrontarsi con la complessità autentica e genuina di entrare in questo mondo, il mondo partorito dalla mente di Eugenio Barba. Bisogna affidarsi a lui, sino in fondo, per poi essere ridestati, ancora da lui al di là, dall’altra parte: nell’invisibile del mito. Per un’ultima volta, non da soli, ma in compagnia:

Ho continuato a muovermi dentro le mura di Tebe, come se prevedessi che anch’io un giorno, come Edipo, sarei espulso da questa città e sarei andato ad venturas, all’incontro di cose a venire: avventure. Il cerchio si chiude: il futuro, inaspettato e inimmaginabile, mi riporta alla condizione di sterrato dei miei tempi di gioventù.

 


Tebe al tempo della febbre gialla – testo e regia: Eugenio Barba; assistenti alla regia: Elena Floris, Dina Abu Hamdan; consiglieri speciali: Nathalie Jabalé, Ulrik Skeel; consiglieri: Gregorio Amicuzi, Juliana Capilé, Antonia Cioaza, Tatiana Horevicht; dramaturg: Thomas Bredsdorff; direzione musicale: Elena Floris; consigliere arte visuale: Francesca Tesoniero; manifesto: Peter Bysted; consulente luci: Jesper Kongshaug; disegno luci: Fausto Pro; spazio scenico: Odin Teatret; attori: Kai Bredholt, Roberta Carreri, Donald Kitt, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley.

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