Si erano perse quasi le tracce del regista siciliano Piero Messina dai tempi del suo esordio, quasi dieci anni fa, con L’attesa, in Concorso al Festival di Venezia del 2015. È tornato nel 2024 sugli schermi del Concorso della Berlinale con un film di Sf distopica (ora nelle sale italiane), molto diverso, quindi, per genere dal precedente ma non lontano invece per quanto riguarda i temi di fondo sviluppati nel suo cinema. E cioè quello della forza dei legami affettivi e, al contempo, della loro perdita traumatica. Girato in inglese e spagnolo, dunque rivolto al mercato internazionale, può ricordare classici come Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan oppure il recente debutto di Daniel Kaluuya e Kibwe Tavares con The Kitchen.
Siamo in un tempo astratto e futuribile ma che potrebbe essere tranquillamente il nostro e già dalla prima inquadratura vediamo la disperazione stampata sul volto del protagonista del film, Sal (il sempre bravo Gael García Bernal) che non riesce a capacitarsi della morte della moglie Zoe, consolato invano dalla premurosa sorella Ebe (Bérénice Bejo). Lui ormai vive soltanto di ricordi spezzati che ci appaiono quasi fossero i frammenti di uno specchio infranto e non più ricomponibile in nessuna maniera. Un lacerto di speranza però ci sarebbe – non parliamo di una soluzione, impossibile nei confronti della morte, ma almeno di un palliativo per cercare, però, di riuscire a gestire quel trauma terribile di cui Sal si sente direttamente responsabile, dato che lui stesso ha causato la scomparsa della moglie in un incidente stradale dovuto ad un paio di bicchieri di troppo.
Nell’azienda dove lavora Ebe, Aeterna, si è sviluppata una nuova tecnologia destinata ad aiutare la sofferenza della perdita subita e alleviare il dolore del doloroso distacco – viene chiamata “Another End” e quindi da qui il titolo del film di Piero Messina. Essa consiste nel trapiantare la memoria e la coscienza della persona scomparsa in un corpo di un host, di un’altra donna quindi. Lo psicologo capo, il dottor Doyle (Pal Aron) cerca di spiegare come funziona il meccanismo, mostrando a Sal un’immagine dai contorni incerti alla parete con un animale che potrebbe essere un’anatra ma anche una lepre. Quando chi la vede, ha deciso cos’è, allora comincia a convincersi e ci crede fino in fondo – allo stesso modo la coscienza della vittima trasferita in un altro corpo, potrebbe fare in modo di credere ad una sorta di risurrezione della vittima – seppur solo temporanea. Tale processo di implantazione psichica è limitato nel tempo e serve, accompagnata da sedute di analisi collettiva, alla elaborazione del lutto, a potersi riamare anche se “a tempo”, per potersi infine dirsi addio in una forma meno traumatica. E così il nostro protagonista ritrova la moglie Zoe nel corpo di un “Doppelgänger”, della bella Ava (Renate Reinsve) con la quale vive un nuovo lento ma inarrestabile processo di innamoramento. Ben lungi dall’ottenere il risultato sperato dalla procedura terapeutica, Sal, dunque, si innamora sul serio di questo “doppio” e non si rassegna affatto all’idea di poterlo perdere. È allora l’amore (e non l’elaborazione del lutto) che continua a sopravvivere davvero tramite tale scambio, attraverso la materialità dei dei corpi a cui viene concessa in qualche modo una sorta di eternità oltre la morte.
E qui ci fermiamo a quasi la metà del film perché poi arrivano una serie di sviluppi e di scambi di persona su cui non vale la pena di riferire per non rivelare particolari in eccesso di una trama che a un certo punto si ingarbuglia parecchio. Con il risultato, di spiazzare (forse un po’ troppo) lo spettatore che potrebbe perdere il filo di una storia sempre cangiante dove tutti i personaggi descritti assumono e giocano, quasi pirandellianamente, ruoli diversi.
Come già accadeva nel suo film di debutto, L’attesa, Messina vuole descriverci delle figure, dei fantasmi che, tra presente e passato, tra utopia e distopia, devono decidere come porsi l’uno nei confronti dell’altro – elementi cangianti e mutanti in un duetto che, però, alla fine si rivelerà essere qualcosa di più. È un gioco continuo di scatole cinesi che si palesa via via mentre il racconto procede nel corso dei suoi 129 minuti, veramente un po’ troppi anche se animati da diversi rovesciamenti di senso.
Film ambizioso e assai poco nella tradizione del cinema italiano che salvo rari casi – ricordiamo quello molto migliore e fortunato di Elio Petri de La Decima vittima (1965) – ha frequentato la tipologia del racconto distopico, Another End ci appare – e ce ne dispiace – un’occasione abbastanza mancata. Non tanto per l’impianto e la resa dello spazio visivo (bella la fotografia di Fabrizio La Palombara) o la recitazione del terzetto degli attori – e cioè Gael García Bernal, Bérénice Bejo e l’affascinate Renate Reinsve – quanto per la forma del racconto in cui si esprime la ricerca autoriale del regista siciliano. Che racconta e spiega in una maniera non sempre a fuoco e poco convincente le ragioni segrete e gli incunaboli dell’amore, della sua perdita e della morte – l’idea di partenza e la ragione di fondo, cioè, che hanno dato vita a questo film.
In Concorso al Festival di Berlino del 2024
In sala dal 21 marzo 2024
Another End – Regia: Piero Messina; sceneggiatura: Piero Messina, Giacomo Bendotti, Valentina Gaddi, Sebastiano Melloni; fotografia: Fabrizio La Palombara; montaggio: Paola Freddi; musica: Bruno Falanga; scenografia: Eugenia F. Di Napoli; interpreti: Gael García Bernal (Sal), Renate Reinsve (Zoe/Ava), Bérénice Bejo (Ebe), Olivia Williams (Juliette), Pal Aron (Il Dottor Doyle); produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori, Viola Prestieri, Paolo Del Brocco per Indigo Film, Rai Cinema; origine: Italia, 2024; durata: 129 minuti; distribuzione: 01 Distribution.