The Kitchen di Daniel Kaluuya e Kibwe Tavares

  • Voto


Già durante la visione (direi dopo i primi venti minuti circa) di questa bella e convincente opera d’esordio alla regia per l’attore britannico Daniel Kaluuya (molto apprezzate le sue interpretazioni in Scappa – Get Out, 2017 come in Judas and the Black Messiah, 2021) insieme all’architetto e filmmaker Kibwe Tavares, sale su una sensazione forse non banale. È come se una parte consistente della produzione filmica (soprattutto anglosassone) riconducibile al genere fantascientifico, a partire almeno dal cult-capolavoro-irripetibile Blade Runner (1982, che tra l’altro non presenta ancora effetti speciali realizzati con software informatici), presentasse al pubblico sì film-mondo da un tempo futuro “così lontano”, ma dove costumi, usanze e modi d’essere sono invece “così vicini” (il più delle volte, in fondo, raffigurano mode e abitudini già passate rispetto al presente contemporaneo dello spettatore).

Se lo si guarda da questo punto di vista, il film di fantascienza narra personaggi con movenze e atteggiamenti che ci aspetteremo del tutto diversi da quelli (mai?) visti. Quasi come se non si riuscisse a immaginare nuove forme possibili dell’espressioni umane. Infatti, quando fummo (e lo siamo tutt’ora felicemente) spettatori del film di Ridley Scott, ci colpirono tantissimo (tra l’altro) le scelte scenografiche, ad esempio in tema di facciate degli edifici. Fu così che ci accorgemmo che, a ben vedere, questi erano pensati come stratificazioni archeologiche, dove qui ad alternarsi, seguendo l’ordine cronologico, erano gli stili architettonici delle grandi epoche storiche. E il tutto si estendeva ovviamente in verticale, come uno viaggio visivo-critico delle diverse soluzioni temporali fino a raggiungere i piani alti dove, finalmente, si andava incontro a maniere tecno-futuribili (tipo le facciate e gli ambienti interni della “Tyrell Corporation”). Non a caso, a proposito si è discusso di “design retro-futurista”. Questo che si potrebbe definire sguardo rivolto al passato tipico di una certa fantascienza cinematografica non si limita alle strutture (come alle sovrastrutture), ma si rivolge anche ai costumi “old/vintage fashion style” che i protagonisti indossano nel futuro (ancora se si guarda a Blade Runner indimenticabile per antonomasia l’impermeabile già “vecchio” dell’ispettore Deckard/Ford).

Ritroviamo pienamente le medesime sensazioni in The Kitchen. Dal quartiere (non a caso degradato) di una città futura, tra i suoi meandri e bassifondi dove ancora si adoperano le semplicissime posate e ciotole (come nei quadri di Morandi) per cibarsi dell’usuale ramen, oppure i capelli si tagliano ancora in saloni al neon dotati di vecchissime poltrone e obsoleti utensili, dove chi vive sembra venire direttamente dagli anni ’90, spunta Izi (Kano) che ogni mattina deve accelerare i suoi tempi per andare al bagno che la comunità del palazzo in cui vive condivide a ogni piano. Certo, è chiaro subito che questo quartiere, detto “The Kitchen”, è quello dove poveri ed emarginati provano a sopravvivere, mentre c’è tutta un’altra città intorno (raramente inquadrata in verità) dove il progresso tecnologico invece si fa vedere e sentire. Ma in fondo non sembra essere questo il punto, ovvero una rappresentazione dell’up e del down del/dal futuro, anche se il film può essere tranquillamente inteso come un’opera di stampo politico. Insomma, non mancano i segni e i segnali per leggere una critica della società da qui a venire. Quello su cui siamo invece portati a riflettere sta, almeno per chi scrive, a partire da un incontro fatale che il protagonista Izi fa. Lui lavora per una società che si occupa di dare sepoltura ai defunti dopo la loro cremazione, utilizzando le ceneri insieme a piccole zolle di terra in cui viene interrata una giovanissima pianta. Il binomio ceneri-essere vivente vegetale diventa forma e sostanza della memoria del caro estinto per chi rimane. Qui Izi incontra Benji (Jedaiah Bannerman), un adolescente la cui mamma è prematuramente scomparsa. Benji è rimasto solo al mondo e s’aggira senza parole, con lo sguardo perso, negli spazi di questa specie di cimitero-vivaio. I due si notano e a un certo punto cominciano a chiacchierare. E così un pensiero prende il ragazzo: ma vuoi vedere che lui è mio padre? Di fronte a questo dubbio lasciato sospeso ma in qualche modo espresso, Izi prima ritiene di darsela a gambe (veramente di sgommare, con la sua moto sportiva, e andare via di corsa), ma poi ritorna e offre un passaggio a piccolo Benji.

Kano e Jedaiah Bannerman

Allora inizia davvero il film per spettatore che non può far altro di seguire gli sviluppi della loro storia. Se da un lato “troppe coincidenze coincidono”, dall’altro la responsabilità di un figlio nato da una relazione breve, se non occasionale, pesa forse troppo a un adulto che, oltre a vivere nel difficile quartiere “The Kitchen” (da cui però non vede l’ora di andarsene), ancora non ha maturato cosa desideri veramente dalla vita. Intanto Benji c’è, rischia di affiliarsi a bande di nutriti Robin Hood del futuro che, come racconta la novella, rubano (anche con violenza) ai ricchi, per dare ai poveri, e quindi di finire in galera già in giovane età. Ecco allora che due solitudini, per giunta legati dal possibile vincolo naturale, anche se non vogliono non possono ignorarsi. Tutti i loro rispettivi tentativi di allontanarsi, di fuggire l’uno dall’altro, di cercare “letto in un domicilio altrui”, li riconducono sulla medesima strada. E anche se questa comporterà fare i conti con tutto, passato-presente-futuro, la condizione dell’appartenersi, del sentirsi in qualche modo legati e il loro avere in comune una persona (che tra l’altro non c’è più, ma appunto il ricordo non si può cancellare) non potranno che spazzare via ogni incertezza, vincere qualunque avversità, darsi insieme una possibilmente degna aspettativa di vita. Non sarà per niente facile, a partire dal guardarsi negli occhi e riconoscersi padre e figlio. Ma è l’unica speranza a cui aggrapparsi in un mondo in cui da soli non si può che capitolare. In una sola parola: costruire. Stare insieme per inventarsi il mondo in cui provare a vivere, dove l’amore non è presupposto obbligato (semmai anche dettato semplicemente dal biologico), ma è conseguente scelta, e perciò forse più vivo e più sentito. Questa è la scommessa di Izi e Benji, questo è per noi The Kitchen.

Su Netflix dal 19 gennaio 2024


The Kitchen – Regia: Daniel Kaluuya, Kibwe Tavares; sceneggiatura: Daniel Kaluuya, Joe Murtagh; fotografia: Wyatt Garfield; montaggio: Maya Maffioli, Labrinth; musica: Dominic Lewis, Christian Sandino-Taylor; scenografia: Nathan Parker; costumi: PC Williams; interpreti: Kane Brett Robinson detto Kano (Izi), Jedaiah Bannerman (Benji), Ian Wright (Lord Kitchener), BackRoad Gee (Kamale), Hope Ikpoku Jnr (Staples), Cristale (Lianne), Demmy Ladipo (Jase), Alan Asaad (Oziee), Teija Kabs (Ruby), Henry Lawfull (Cronick), Reuben “Trizzy” Nyamah (Dirt); produzione: Kareem Adeshina, Theo Barrowclough, Daniel Emmerson, Daniel Kaluuya, Angus Lamont, Jennifer Monks, Steve Newton per DMC Film, 59%, Factory Fifteen, Film4;  Origine: Regno Unito, Usa, 2024; Durata: 117 minuti. Distribuzione: Netflix.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *